A Macron servirà «molta immaginazione» - Marat n. 49
Il partito del presidente ottiene soltanto la maggioranza relativa, ed è molto lontano dai 289 seggi necessari a governare. Il modo in cui affronterà la prossima legislatura è pieno di dubbi
Emmanuel Macron non avrà la maggioranza assoluta in Parlamento, una situazione inedita che costringerà il presidente, che conquista soltanto la maggioranza relativa, a scendere a compromessi con le opposizioni per tutta la durata della legislatura. Macron ha costruito parte del suo successo grazie alla capacità di decidere e imporre la propria agenda, ma è stato in grado di farlo anche grazie alla maggioranza schiacciante ottenuta alle elezioni legislative del 2017. Da domani, invece, il presidente decisionista dovrà diventare maestro nel compromesso e nelle dinamiche parlamentari. Queste elezioni legislative consegnano un’Assemblea nazionale molto frammentata e riscoprono un concetto che la preminenza dell’elezione presidenziale aveva temperato: in Francia il governo deve tenere conto dei rapporti di forza in Parlamento. Un luogo che fino a poche settimane fa sembrava una semplice cassa di risonanza delle scelte prese all’Eliseo, diventerà il nuovo centro della politica francese.
È facile dirlo col senno di poi, ma Macron ha commesso molti errori dalla sua rielezione. Ha aspettato troppo a comporre il suo nuovo governo, probabilmente scommettendo su un mancato accordo tra i partiti di sinistra, che invece è arrivato, e sulla poca rilevanza di questo passaggio per l’opinione pubblica, abituata al «fatto maggioritario», la tendenza dei francesi a consegnare la maggioranza al presidente eletto poche settimane prima. Lasciare invece a Jean-Luc Mélenchon campo libero ha permesso al tribuno di raccontare una storia seducente: i francesi avrebbero potuto sfruttare le elezioni legislative per eleggere un primo ministro di sinistra malgrado un risultato deludente alle elezioni presidenziali. Non è mai stato davvero possibile, ma in politica le narrazioni contano, e questa ha occupato tutta la campagna elettorale, completamente dominata dalla Nupes, l’alleanza tra France insoumise, Partito socialista, ecologisti, Partito comunista e Nuovo partito anticapitalista.
Invece di rispondere alla narrazione di Mélenchon, nominando un governo in discontinuità con quello precedente e con una figura capace di condurre una battaglia elettorale complicata, Macron ha scelto di confermare gran parte dei ministri uscenti e di nominare una prima ministra poco carismatica, molto tecnica e inesperta dal punto di vista politico: Élisabeth Borne non ha dato alcun valore aggiunto al messaggio del presidente, che si è disinteressato dalle elezioni legislative ed è sembrato aver dato per scontata la vittoria. Infine, il presidente ha probabilmente abusato del suo posizionamento politico «sia di destra che di sinistra» risultando troppo ambiguo: ha affrontato il primo turno delle elezioni presidenziali cavalcando temi di destra come la sicurezza (interna e internazionale), e la riforma delle pensioni, poi ha dovuto ricalibrare il messaggio per sconfiggere Marine Le Pen al ballottaggio, proponendo maggiore attenzione alla transizione ecologica e un approccio diverso alla riforma delle pensioni. Infine, alle elezioni legislative, ha impostato tutta la strategia comunicativa contro la sinistra unita, provando a fare leva sul rischio di ingovernabilità in caso di sconfitta del suo partito. Ai francesi, in fondo, l’idea di un Parlamento frammentato non è mai dispiaciuta: nei sondaggi l’elettorato favorevole a un governo macronista è sempre stata minoritaria, e domenica sera c’è stata la conferma di questa tendenza.
Come sa chi è appassionato di sistemi elettorali, quello francese è spesso criticato per essere distorsivo, perché rappresenta il partito vincente in modo sproporzionato rispetto al proprio peso reale nel paese (Emmanuel Macron nel 2017 ottenne 345 deputati dopo aver raggiunto il 24% al primo turno delle elezioni presidenziali). In realtà stavolta il sistema è piuttosto coerente con i rapporti di forza emersi al primo turno delle elezioni presidenziali, salvo per i Républicains, crollati al 4,7% il 24 aprile e invece oggi in grado di eleggere circa 70 deputati (nel 2017 ne elessero 130), a dimostrazione del loro profondo radicamento territoriale e della candidatura presidenziale disastrosa di Valérie Pécresse. Il Rassemblement national ottiene il gruppo più ampio della sua storia, con circa 90 eletti, un risultato migliore delle aspettative che mostra una nuova capacità: mobilitare il proprio elettorato quando un risultato elettorale concreto è a un passo, e superare il front républicain, l’unione di tutte le forze “costituzionali” contro il pericolo dell’estrema destra. Per Marine Le Pen è un’ottima notizia: il suo partito ha risolto i propri problemi economici per la prossima legislatura, e finalmente i lepenisti potranno dimostrare di essere una forza politica ormai pienamente inserita nel gioco democratico del paese.
La sinistra, grazie all’alleanza Nupes guidata da Jean-Luc Mélenchon, è la prima forza di opposizione con circa 150 deputati. Rispetto al clima respirato durante le elezioni presidenziali, in cui sembrava che la sinistra non avesse più nulla da dire e da offrire agli elettori, è senz’altro un risultato storico. Mélenchon è riuscito a compiere un doppio colpo, convincendo prima tutti i partiti di sinistra a unirsi sotto una sola bandiera, poi i francesi che le elezioni legislative potevano essere un modo per riportare la gauche al potere. Il primo gruppo di opposizione dà diritto alla presidenza della Commissione finanze, un ruolo di grande responsabilità in fase di approvazione della legge di bilancio, e a una maggiore attenzione mediatica. Tuttavia, le cifre invitano a relativizzare il risultato: se si sommano le percentuali raccolte dai candidati alle presidenziali si nota che sono minori rispetto a quella ottenuta, tutti insieme, alle elezioni legislative. L’unione non fa necessariamente la forza, dipende dalla legge elettorale. Inoltre, l’ultima volta che la sinistra è andata all’opposizione, nel 2007, dopo la vittoria di Nicolas Sarkozy alle presidenziali, i partiti di quest’area ottennero 227 parlamentari. Detto questo, la grande alleanza è sicuramente un punto da cui ripartire in vista del 2027, così come la base ideologica: chi vota a sinistra, in Francia, vuole un partito in grado di elaborare un progetto di società diverso da quello attuale. La capacità di Mélenchon, in fondo, è stata quella di proporre cambiamenti radicali in ambito fiscale, ecologico e internazionale, senza però mai esagerare nei toni, almeno nelle ultime settimane. Se poi questo basterà per risultare una forza di governo credibile, è tutto da verificare.
Il risultato di Ensemble! ha dirette conseguenze sul governo in carica e sulla carriera politica di diverse personalità di primo piano. In ossequio alla regola non scritta che prevede l’obbligo di dimissioni dei ministri candidati in caso di sconfitta nella propria circoscrizione, dovranno lasciare l’esecutivo tre ministre: la ministra della Sanità, Brigitte Bourguignon, la sottosegretaria con delega agli affari marittimi, Justine Benin, e la ministra della Transizione ecologica, Amélie de Montchalin. Anche Christophe Castaner, tra le persone più vicine a Macron, ed ex ministro dell’Interno è stato battuto nel suo collegio, così come Richard Ferrand, anch’egli vicinissimo a Macron e presidente uscente dell’Assemblea nazionale.
Quali sono gli scenari adesso?
«La mano è tesa, lo è sempre stata. Il risultato è deludente, ma è sempre maggioritario anche se relativo», ha detto Olivia Grégoire, portavoce del governo, anticipando lo scenario dei prossimi giorni: difficilmente Emmanuel Macron, in un contesto così complicato, potrà governare. In teoria, il governo può andare avanti anche senza maggioranza assoluta, la fiducia dell’Assemblea nazionale è presunta ed è già capitato nella Quinta repubblica che un esecutivo di minoranza cercasse i voti legge per legge. Tuttavia, lo schema non è più bipolare: stavolta esistono tre gruppi di opposizione sufficientemente numerosi da poter depositare mozioni di sfiducia. Bastano, infatti, 58 deputati per tentare di provocare le dimissioni del governo, a condizione che la maggioranza assoluta dei componenti voti a favore della mozione. Per andare avanti in queste condizioni c’è bisogno di una grandissima capacità di compromesso, adattamento e pazienza: tutte qualità che per adesso Macron non ha mostrato. È possibile, ma faticoso.
Esiste anche una possibilità estrema, e cioè lo scioglimento dell’Assemblea nazionale, prerogativa data dall’articolo 12 della Costituzione al presidente della Repubblica. La questione, in questo caso, è dibattuta: l’articolo 12 prevede che il presidente non possa sciogliere l’Assemblea a meno di un anno dalla sua elezione. Il Consiglio costituzionale ritiene che questo impedisca a un presidente appena eletto di procedere allo scioglimento. Alcuni costituzionalisti ritengono invece che questo voglia dire solo che non si può sciogliere l’Assemblea due volte in un anno. Quando la legislatura termina in modo naturale, il presidente non procede a uno scioglimento vero e proprio, ma applica il normale calendario istituzionale. Se fosse così, il ricorso all’articolo 12 sarebbe possibile già nel 2022.
Un’altra ipotesi, molto circolata anche nelle settimane precedenti, è quella di un’alleanza di governo tra i macronisti di Ensemble! e i Républicains, il centrodestra moderato. In teoria è un’ipotesi coerente, perché i due partiti sono abbastanza compatibili, soprattutto sui temi economici; nella pratica però entra in gioco la convenienza: quanto conviene salvare un presidente molto debole a un partito che ha l’opportunità di ricostruirsi grazie a un’opposizione costruttiva ma ben chiara? Inoltre, i molti deputati eletti dai Républicains in queste legislative sono parte di una nuova generazione che si è forgiata politicamente in opposizione a Emmanuel Macron, e anzi è stata eletta proprio sulla promessa di impedire al presidente di ottenere la maggioranza assoluta. La strada per un accordo è in salita: «Ci vorrà molta immaginazione per trovare il modo di governare», ha riassunto in modo efficace il ministro dell’Economia Bruno Le Maire.