Le due possibilità che Marine Le Pen aveva per vincere - Marat n. 41
La candidata del Rassemblement national ha condotto una campagna sulla difensiva, come se avesse già accettato la sconfitta, certificata da tutti i sondaggi. Ma ha ancora una chance con l’astensione
«Siamo stati molto più disciplinati rispetto a cinque anni fa, madame Le Pen».
«Sì è vero, si vede che siamo invecchiati».
«Ah, sarò molto rispettoso nei suoi confronti, per lei non si direbbe, ho paura che invece su di me si veda molto».
Lo scambio tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, alla fine del dibattito televisivo di mercoledì 20 aprile, chiude con dei sorrisi cinque anni di grandi tensioni tra due politici che si sono scelti, consapevoli che la propria visione del mondo trova un contraltare perfetto in quella dell’altro. Diversi sondaggi in questi mesi hanno sottolineato la frustrazione dei francesi, che non desideravano una rivincita tra gli stessi candidati del 2017, ma alla fine li hanno qualificati, come se le loro aspirazioni avessero fatto i conti con la realtà.
Così come sembrava prevedibile il risultato del primo turno, anche l’esito finale appare scontato: se guardiamo i sondaggi e analizziamo la dinamica degli ultimi giorni, le probabilità che Marine Le Pen riesca a vincere domenica sono basse, più basse di quanto credessimo subito dopo la qualificazione al secondo turno. Per capire come ci siamo arrivati bisogna tornare indietro di una decina di giorni.
Mercoledì 13 aprile, tardo pomeriggio, Marine Le Pen ha appena terminato la sua conferenza stampa sulla politica estera al Salon Hoche, un edificio di inizio Novecento che accoglie eventi nell’ottavo arrondissement di Parigi, tra i più borghesi e costosi della capitale. Il bilancio del suo intervento è deludente: doveva essere un momento importante nella strategia di “normalizzazione” della candidata, e invece ha mostrato i grandi limiti della sua visione internazionale, contraddittoria e a tratti incomprensibile, più dura con la Germania e gli Stati Uniti che con la Russia. Il tutto oscurato da una contestazione che ha interrotto le domande e monopolizzato l’attenzione dei media. L’incontro con la stampa segna un momento fondamentale della dinamica di queste due settimane, perché arriva dopo giorni di attacchi durissimi al Rassemblement national e alla sua candidata da parte di media, intellettuali, politici, sindacati, e certifica in modo inequivocabile il fallimento della strategia di “normalizzazione”.
I sondaggi, ottimi per Le Pen la sera di domenica 10 aprile, cominciano pian piano a registrare un vantaggio sempre più ampio per il presidente uscente, che imposta tutta la sua campagna elettorale sul pericolo dell’estrema destra, in modo offensivo, organizzando eventi in zone del paese a lui ostili e moltiplicando le interviste televisive. Così, per recuperare spazio “positivo” sui media, il Rassemblement national comincia a far filtrare la strategia che Marine Le Pen terrà durante il dibattito, momento decisivo e fondamentale di questa campagna elettorale tra primo e secondo turno. Ai media viene detto che la candidata sarà «presidenziale», «calma», concentrata «sul progetto», perché, come mi ha detto il presidente del Rassemblement national Jordan Bardella durante una passeggiata al mercato di Narbonne, «sono cinque anni che prepariamo questo confronto».
Questo atteggiamento sulla difensiva è stato evidente durante il dibattito, durato tre ore e a tratti molto tecnico: Marine Le Pen avrebbe potuto attaccare Macron su molti dossier, sulle scelte fiscali di questo mandato che hanno favorito in proporzione le classi più agiate, sulla gestione delle proteste dei gilet gialli, sulla prossimità tra l’entourage del presidente e la società di consulenza McKinsey, sui tagli alla sanità negli anni appena precedenti all’arrivo della pandemia, e altro ancora. Insomma, avrebbe potuto mettere il presidente di fronte al suo bilancio. E invece, in una completa inversione dei ruoli, Macron si è comportato in modo offensivo, come se fosse lo sfidante, riuscendo in questo modo a parlare poco di se stesso e al contrario sottolineando le incoerenze del programma della sua avversaria, i suoi voti contraddittori all’Assemblea nazionale, le posizioni dei membri del suo partito rispetto a quelle che lei pronunciava in diretta davanti a quasi 16 milioni di spettatori (minimo storico di audience).
Marine Le Pen, d’altro canto, è apparsa sulla difensiva, come se volesse limitare i danni e come se il suo obiettivo fosse preservare la propria immagine e lavare la vergogna del disastroso confronto del 2017, quasi a voler lasciare un ricordo “serio” ai francesi per la sua uscita di scena. I danni sono stati effettivamente limitati, perché non ricorderemo questo dibattito come un disastro per la candidata del Rassemblement national. Tuttavia, l’atteggiamento rinunciatario indica un’inconscia accettazione della sconfitta: se la tua attenzione è rivolta a cancellare il passato, vuol dire che non hai grande fiducia nel futuro. «L’idea non era impostare il dibattito in modo troppo aggressivo, anche se siamo coscienti che un atteggiamento più pugnace sarebbe piaciuto a parte dei nostri militanti», mi ha detto una persona del suo entourage il giorno dopo, a Roye, nella Somme, un centinaio di chilometri a nord di Parigi.
Le Pen ha scelto di trascorrere la penultima giornata di campagna elettorale in una zona a lei favorevole per continuare a battere sul potere d’acquisto in compagnia dei camionisti, una categoria allettata dalla sua proposta di abbassare l’Iva sulla benzina dal 20% al 5,5%. Così, la candidata ha pranzato in una piazzola di sosta attrezzata con docce, ristorante, area notte e un supermercato, uno dei luoghi simbolo della Francia periurbana, che vive lontana dai grandi centri e vota per lei. Mentre la attendevamo, il suo staff ha trovato un po’ di tempo per analizzare il dibattito con i giornalisti: «Se Marine fosse stata più aggressiva l’avreste attaccata sottolineandolo, ma è andata bene, soprattutto nell’ultima parte, quando il dibattito si è fatto meno tecnico e più politico. Non siamo d’accordo con l’analisi che la vede uscita perdente dal confronto». Certo, è difficile che qualcuno possa ammettere il contrario, tuttavia, quando il suo entourage confida che «è stata come doveva essere» ammette che in fondo non era importante vincere, era importante altro.
La sera di giovedì, ad Arras, di fronte a più di tremila persone, per il comizio finale di questa campagna elettorale, Le Pen tiene probabilmente il suo miglior discorso. L’anafora «Popolo di Francia, alzati in piedi» ripetuta per l’ultimo quarto d’ora del suo intervento aveva il gusto amaro dell’ultimo appello, dell’ultimo momento, per lei, prima del ritiro.
Marine Le Pen aveva due possibilità per vincere.
La prima era riuscire a ribaltare la narrazione dei media e degli avversari politici, trasformando il voto in un referendum pro o contro Emmanuel Macron. Era una strada molto stretta, apparsa impraticabile dopo poche ore: il fronte repubblicano, l’unione di tutti i partiti e gli elettori per evitare la presa del potere da parte del Rassemblement national, resta forte. Forse banalizzato, meno in salute, rigettato da una parte di elettorato che si rifugia nell’astensione, ma ancora sufficiente a sbarrare la strada all’estrema destra.
La seconda è meno intuitiva, e la illustrano due elettrici di Mélenchon con cui ho parlato lungamente. Appoggiate a una delle transenne installate per filtrare le persone che tentano di avvicinarsi al presidente, Frédérique e Valérie osservano da una posizione decentrata il bagno di folla che si concede Macron, lo scorso 14 aprile, in visita alla Le Havre insieme al suo ex primo ministro Edouard Philippe, oggi sindaco della città. Sono insegnanti, un corpo di dipendenti pubblici che ha criticato duramente la politica di Macron e del suo ministro dell’Istruzione, dopo esserne stati sedotti nel 2017. Le due professoresse costituiscono l’elettore tipo di sinistra che ha scelto Mélenchon «non per grande convinzione, ma perché era il più competitivo», e oggi esita, vorrebbe trovare il modo di pesare anche in questo ballottaggio: «L’ideale sarebbe che vincesse di poco, per tenere conto del paese che non lo ha votato. Quindi se non ci sono rischi di vittoria di Le Pen molto probabilmente ci asterremo».
È come se Marine Le Pen potesse vincere solo “per sottrazione”, se la vittoria di misura del presidente uscente si tramutasse in una sconfitta di misura, non voluta. Ma è davvero importante il motivo di un risultato?
Consigli di lettura e fonti
Le Figaro racconta i dubbi e le esitazioni degli elettori che al primo turno non hanno scelto né Macron né Le Pen e adesso sono costretti a farlo, mentre il settimanale Le 1 pubblica una lunghissima intervista a Brice Teinturier, direttore generale di Ipsos France, che analizza quale tratto comune tiene insieme l’elettorato francese: la domanda di protezione.
L’Express racconta l’ultimo comizio di Le Pen, al nord per «una tournée d’addio», secondo Le Monde il dibattito ha mostrato «un’estrema destra fedele ai suoi fondamentali».
Macron è favorito, ma i suoi elettori sono poco entusiasti, scrive Le Monde; l’Opinion analizza il dietro le quinte dei «bagni di folla molto controllati» del presidente. Le Point si pone una domanda: ma Macron è davvero liberale?