Le grandi manovre per le legislative - Marat n. 42
I partiti negoziano per essere più competitivi nelle 577 circoscrizioni elettorali che eleggono i deputati. Non sarà semplice, anche perché alle motivazioni politiche si aggiungono quelle economiche
1,42 euro all’anno, per 5 anni. È quanto vale un solo voto ottenuto da un partito politico alle elezioni legislative, a condizione che questo abbia superato l’1% in almeno 50 circoscrizioni elettorali su 577. A questo si aggiungono 37.280 euro all’anno di finanziamenti pubblici per ogni parlamentare eletto. Certo la politica è un teatro, contano interessi di parte, odi reciproci, calcoli individualisti, scommesse personali, nuovi progetti: i soldi non sono l’unica variabile per comprendere i negoziati tra i partiti per le elezioni legislative del 12 e 19 giugno. Il teatro, tuttavia, va finanziato.
Il sistema dei partiti si sta organizzando per affrontare quello che Jean-Luc Mélenchon, leader della France insoumise, ha definito “terzo turno”: l’elezione che stabilirà i rapporti di forza all’Assemblea nazionale e influenzerà il lavoro del prossimo governo. Le elezioni legislative sono, di fatto, 577 mini-presidenziali: il territorio è diviso in altrettanti collegi uninominali che eleggono il proprio deputato in un sistema maggioritario a doppio turno, con delle regole che premiano i partiti più forti. Al ballottaggio si qualificano infatti i primi due candidati per numero di voti e tutti gli altri candidati che superano il 12,5% degli iscritti (con un’astensione tradizionalmente del 50%, vuol dire il 25% dei voti). Questo rende possibili dei ballottaggi “triangolari” e più raramente “quadrangolari”, che contribuiscono a rafforzare il primo partito, che in casi del genere ha bisogno soltanto della maggioranza relativa per conquistare il seggio.
Per i partiti raccogliere fondi è fondamentale per mantenere in piedi le loro strutture e attività, molto costose: l’affitto e la manutenzione della sede centrale, i contributi ai circoli locali, le iniziative politiche nei centri congressi o teatri, gli stipendi dei dipendenti, la logistica e la comunicazione nelle campagne elettorali. Dal punto di vista politico, inoltre, è importante eleggere almeno 15 deputati per comporre un gruppo parlamentare all’Assemblea nazionale, che consente di partecipare attivamente ai lavori delle commissioni, di avere una pattuglia consistente di deputati e deputate invitati nelle trasmissioni televisive e radiofoniche (i gruppi hanno un «diritto di antenna» nei canali radiotelevisivi) , e di coltivare il proprio collegio di appartenenza in vista di scadenze elettorali locali.
In genere, da quando i mandati di Parlamento e Presidenza coincidono, l’elezione presidenziale genera il «fatto maggioritario»: i francesi sono razionali e, in genere, concedono la maggioranza per governare alla persona che hanno appena scelto attraverso il suffragio universale diretto, anche perché chi si candida all’Eliseo presenta un programma che presuppone una maggioranza in Parlamento. Stavolta gli avversari di Macron vorrebbero rendere questo meccanismo non scontato: Jean-Luc Mélenchon chiede ai francesi di eleggerlo primo ministro, il Rassemblement national di eleggere un Parlamento senza maggioranza assoluta per evitare che Macron abbia «i pieni poteri», come ha detto il presidente del partito Jordan Bardella.
In un’intervista al quotidiano l’Humanité, Mélenchon ha sintetizzato la sua formula: «Proponiamo che ciascuno abbia un gruppo parlamentare che parteciperà, una volta eletto, a un intergruppo; e un Parlamento comune sul modello dell’Unione popolare (la piattaforma utilizzata dalla France insoumise per tenere insieme le diverse componenti del suo movimento, ndr) (…). L’Unione popolare fornisce un metodo che consente a ciascuna organizzazione di rimanere se stessa e alle persone di agire. Sto parlando di una federazione, o di una confederazione». Sembra una dichiarazione un po’ politicista, ma il senso è che la France insoumise, da sola, non è in grado di vincere le elezioni legislative, e ha bisogno di alleanze. Non essendoci le condizioni per un partito unico di sinistra bisogna trovare un modo di eleggere un “intergruppo” costituito da diversi partiti, in particolare dagli insoumis, dagli ecologisti, dai socialisti, dai comunisti e dal Nuovo partito anticapitalista.
Questa galassia sta negoziando da giorni un accordo per evitare di presentare più candidati in uno stesso collegio, utilizzando il metodo delle “desistenze”: per esempio, se in un collegio si candida un politico della France insoumise, gli ecologisti non candideranno nessuno, e viceversa. Uno scambio che riduce il montante del finanziamento pubblico per i partiti (non si tratta di una coalizione, se gli ecologisti non hanno un candidato in una circoscrizione non hanno diritto ai fondi, che invece vengono raccolti dal candidato di un altro partito di sinistra), ma dovrebbe consentire di esistere politicamente durante i prossimi 5 anni.
Il negoziato, che continua a svolgersi mentre invio questo numero di Marat, è molto complesso. Esiste in primo luogo una questione programmatica. Ecologisti, comunisti, insoumis e socialisti sono più o meno d’accordo sui temi economici, come l’aumento del salario minimo, la riduzione dell’età pensionabile, la maggiore tassazione dei redditi più alti, ma lo sono molto meno sull’Europa, dove le divergenze sono profonde: gli insoumis vogliono «disobbedire» ai trattati europei ogni volta che ce ne sia bisogno, un approccio à la carte che gli altri partiti della “tentata coalizione” non condividono. Per non parlare della NATO, che Mélenchon propone di abbandonare per costituire un’alleanza “altermondialista”, mentre per ecologisti e socialisti questa è una linea rossa. La scelta delle circoscrizioni, infine, non è secondaria, esistono collegi dove un candidato di sinistra è più competitivo e altri dove un’alleanza di questo tipo non è sufficiente: ottenere 50 investiture (il minimo per accedere al finanziamento pubblico) in collegi inespugnabili salva il portafoglio, ma è politicamente problematico.
Anche a destra la situazione è in movimento. Il Rassemblement national punta a un gruppo ampio, oltre 100 deputati, per evitare di lasciare il campo dell’opposizione alla sinistra. I rapporti di forza con Reconquête!, il partito di Éric Zemmour, sono squilibrati: alle presidenziali, Marine Le Pen ha superato la soglia del 12,5% degli aventi diritto in 421 circoscrizioni su 577, oltrepassando il 20% in 189 collegi. Un punto di partenza ottimo, che consente ai lepenisti di dettare le condizioni a Zemmour, che ha raccolto più del 12,5% degli iscritti soltanto in 2 circoscrizioni, la quarta e la quattordicesima di Parigi, che sono a cavallo del sedicesimo arrondissement, il quartiere degli Champs Elysées e del Trocadero. Due risultati che in ogni modo difficilmente basteranno a un candidato di Reconquête! per conquistare il seggio. La strategia lepenista sembra chiara: presentare candidati ovunque tranne in pochissime circoscrizioni dove invece si presenteranno i candidati di Reconquete! più “compatibili”, in un evidente tentativo di assorbirli. Insomma, senza deputati, senza finanziamenti, senza radicamento territoriale, Éric Zemmour rischia di essere una cometa. Anche perché, in queste condizioni, trovare 577 candidati può rivelarsi proibitivo per delle ragioni politiche (è sempre complesso attirare nuove persone dopo una sconfitta), ma anche economiche: una campagna in un piccolo collegio costa tra i 15 e i 20mila euro, e il partito è in grado di metterne a disposizione soltanto una minima parte. Chi rischia i propri soldi per competere in una gara quasi impossibile?
Infine, i Républicains. La destra moderata sembra ormai arrivata alla fine della sua storia: Valérie Pécresse non ha raggiunto la soglia del 5% dei voti necessari a ottenere i rimborsi previsti dallo Stato per le elezioni presidenziali, aggiungendo problemi di finanziamento a quelli politici. Tuttavia, il partito può contare su 105 deputati uscenti e su un forte radicamento territoriale, che gli ha consentito in questi anni di vincere quasi tutte le elezioni locali (le regioni e i comuni sono governati in gran parte da Républicains). Questi fattori, in un’elezione con i collegi uninominali, non bastano per garantirsi la rielezione, ma contano più di quanto sembra. Vedremo se il “vecchio mondo” riuscirà a salvarsi dall’estinzione.
Consigli di lettura e fonti
Libération constata che in caso di alleanza di tutta la gauche dietro la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, le idee europeiste di socialisti ed ecologisti sarebbero molto meno rilevanti, aprendo la strada a una forza di sinistra protestataria e antieuropea. Anche Les Echos si sofferma sulla conseguenza dell’egemonia di Mélenchon a sinistra, mentre per il Figaro la ricomposizione a sinistra sarà «dolorosa».
L’Express racconta la strategia di Marine Le Pen: perché cercare un’alleanza con Zemmour quando si possono semplicemente attirare i profili più compatibili con il lepenismo? l’Opinion prova a capire quanti deputati può eleggere realisticamente il Rassemblement national, Les Echos ha messo insieme una carta interattiva per capire i rapporti di forza nelle 577 circoscrizioni.