Macron, stagione due - Marat n. 45
Il presidente ha nominato la prima ministra e il nuovo governo, molto simile al precedente, anche se c’è qualche sorpresa
«Il popolo francese non ha prolungato il mandato che oggi termina ed è cominciato il 14 maggio 2017; questo popolo nuovo, diverso da quello di cinque anni fa, ha conferito a un presidente nuovo un mandato nuovo». Durante la cerimonia ufficiale della sua investitura all’Eliseo, il 7 maggio scorso, Emmanuel Macron aveva tracciato la direzione dei suoi prossimi cinque anni. Questo passaggio, un po’ retorico e vago, sembrava promettere dei cambiamenti reali nella composizione del governo, che tardava, alimentando i retroscena di giornali, radio e televisioni. Dopo 22 giorni, è arrivata la prima smentita con la nomina della prima ministra, Élisabeth Borne, che non ha nulla di nuovo. È stata ministra delle Infrastrutture tra il 2017 e il 2019, poi dell’Ecologia e infine del Lavoro; è considerata una personalità di sinistra ma molto tecnica, seria e competente in molteplici campi: una tecnocrate che conosce a memoria la macchina dello Stato, avendo lavorato nell’alta amministrazione, nei gabinetti ministeriali ed essendo stata prefetta. Ingegnere di formazione, non brilla per simpatia e calore umano: secondo diversi retroscena, i suoi collaboratori non la amano, la considerano troppo esigente e lavoratrice. Corinne Lhaik, giornalista dell’Opinion ed esperta del mondo che gira attorno a Macron, ha raccontato che ha l’abitudine di fissare le riunioni intorno alle 18.30 senza prevedere alcun rinfresco per chi vi partecipa, un’austerità non molto apprezzata nei gabinetti ministeriali.
In ogni caso, la sua nomina non è una vera e propria sorpresa, per quanto durante questi venti giorni il presidente abbia sondato profili alternativi (sempre femminili). In effetti, Borne è stato uno dei primi nomi indicati dalla stampa ancor prima della fine della campagna elettorale, perché sembrava la scelta più coerente con l’impostazione che Macron intendeva dare al suo secondo mandato. Una super-collaboratrice, con uno scarso peso politico all’interno della galassia macronista, con poca ambizione personale (almeno per adesso), una grande conoscenza tecnica dei dossier e un buon rapporto con il presidente, che intende gestire in prima persona sia la maggioranza che i rapporti con i ministri più politici e influenti. Insomma, una scelta non molto diversa dal suo predecessore Jean Castex. A Borne, che mantiene la delega alla pianificazione ecologica ed energetica si affiancano, come promesso, due ministre che si occuperanno di questi temi: alla Transizione ecologica e Coesione territoriale è nominata Amélie de Montchalin, alla Transizione energetica Agnès Pannier-Runacher, due ex dirigenti di grandi imprese già ministre durante il primo mandato.
L’impressione di continuità è confermata dal governo nominato venerdì sera: 15 ministri su 28 sono confermati, alcuni nello stesso ministero, altri in nuovi posti. Il mantra di Emmanuel Macron è en meme temps, allo stesso tempo, e sembra che l’esecutivo segua ancora una volta questa bussola. I principali ministeri relativi alla “potenza pubblica” sono affidati a esponenti di centrodestra: Bruno Le Maire conserva il ministero dell’Economia, Gérald Darmanin quello dell’Interno, una continuità evidente con i precedenti governi (Le Maire è ministro dal 2017). A loro due si aggiunge Sébastien Lecornu, che lascia il suo posto al ministero dell’Oltremare per prendere la testa del ministero delle Forze armate. I tre uomini sono ex iscritti ai Républicains (Darmanin e Le Maire piuttosto importanti) e rappresentano una garanzia per gli elettori di centrodestra che guardano con favore al potere macronista. A questi si affianca Éric Dupond-Moretti, celebre avvocato considerato di sinistra e confermato al ministero della Giustizia malgrado i rapporti molto tesi con i magistrati.
Alla sinistra, invece, Macron ha lasciato i ministeri più sociali, quello del Lavoro all’ex socialista Olivier Dussopt, che si occuperà quindi della difficilissima riforma delle pensioni, quello della Sanità a Brigitte Bourguignon, ex deputata socialista, quello della Cultura a Rima Abdul Malak, anch’essa con un passato in amministrazioni socialiste, in particolare al comune di Parigi. Olivia Grégoire, deputata e con una lunga carriera nelle amministrazioni di centrodestra, è la nuova portavoce del governo e sostituisce Gabriel Attal, fedelissimo di Macron e nominato al Budget, il ministero che tiene letteralmente i cordoni della borsa ed è alle dirette dipendenze dell’Economia.
Se regna un grande equilibrio tra membri considerati di destra e sinistra, non si registra invece equilibrio se si considerano le diverse regioni del paese, criterio che non sembra preso in considerazione: nell’esecutivo c’è soltanto un sindaco uscente e nessun membro di peso conta ormai su un grande radicamento territoriale. Questo, insieme alla scarsa esperienza della prima ministra con la politica locale (al contrario dei suoi due predecessori, sindaci al momento della nomina), potrebbe rafforzare le critiche su un potere percepito come troppo parigino e poco capace di comprendere le istanze dei territori.
Il secondo fatto politico da sottolineare è il tempo. Il padrone degli orologi ha atteso 22 giorni per nominare la prima ministra, e 26 per scegliere i componenti del governo: non è un caso, ed è una strategia già adottata durante le presidenziali, quando il presidente ha lasciato il terreno alle opposizioni per entrare nel dibattito il più a ridosso possibile del voto, il momento in cui si cristallizzano le scelte degli elettori.
Anche stavolta, il presidente ha lasciato che la grande novità del momento, l’alleanza di tutti i partiti di sinistra che si presenteranno uniti, con un solo candidato comune per collegio alle elezioni legislative, facesse il suo corso, e cominciasse a diventare sempre meno nuova. Si vota il 12 giugno, manca poco, e nei prossimi giorni l’opinione pubblica si concentrerà sul nuovo governo e sui rapporti di forza interni alla maggioranza. Il miglior modo per vincere un’elezione “confermativa” come quella del Parlamento è renderla una formalità, anche perché l’opposizione e l’opinione pubblica non avranno molto tempo per commentare e criticare l’azione dell’esecutivo: prima di entrare nel dettaglio e prendere decisioni serie, è necessario un piccolo periodo di assestamento, il tempo tra la nomina e il primo turno delle legislative è troppo poco per costruirci una campagna elettorale solida.
In ogni caso è evidente che il presidente abbia scelto in gran parte da solo la squadra di governo, come se avesse voluto riaffermare la sua autorità su una maggioranza che si annuncia litigiosa. In questo senso le nomine più sorprendenti sono due.
La prima è quella di Pap Ndiaye, storico di origini senegalesi nominato ministro dell’Istruzione e attualmente direttore del Musée national de l’histoire de l’immigration di Parigi. Ndiaye ha delle idee molto diverse dal suo predecessore, Jean-Michel Blanquer, come scrive il Monde: «Fondamentalmente, i due uomini difendono due visioni: uno è un feroce critico del comunitarismo, la divisione della società in diverse comunità etnico-religiose, del wokismo e dell’islamo-gauchismo, e sposa una visione rigorosa dell’universalismo e della laicità alla francese; l’altro, che ha studiato negli Stati Uniti e ha fondato il Circolo d’azione per la promozione della diversità, denuncia il “razzismo strutturale” della società francese e “l’atteggiamento di negazione sulle violenze della polizia” in Francia. Pap Ndiaye è anche in disaccordo sull’utilizzo della definizione di islamo-gauchismo, che ritiene non designi “nessuna realtà” interna all’università». Nel 2018 Ndiaye aveva criticato la proposta (poi naufragata) di eliminare la parola “razza” dall’articolo 1 della Costituzione : «Anche se è ovvio che la “razza” non esiste da un punto di vista biologico, è chiaro che non è scomparsa dalle mentalità: è sopravvissuta come categoria immaginaria storicamente costruita, con potenti effetti sociali. Anche se l’intenzione è lodevole, l’abolizione della “razza” nelle scienze sociali o nella Costituzione non farà scomparire le discriminazioni fondate su di essa. L’utilizzo della categoria razziale non implica un impegno ontologico da parte del legislatore o del ricercatore per promuovere l’esistenza delle “razze”, ma l’utilizzo pragmatico di una categoria utile a descrivere fenomeni discriminatori».
La sua scelta ha immediatamente attirato le critiche dell’estrema destra, che ritiene il nuovo ministro dell’Istruzione come l’emblema del progetto di Macron di «decostruire il paese, i suoi valori e il suo futuro» ha detto Marine Le Pen, seguita immediatamente da Éric Zemmour, che ha accusato Macron di aver nominato un governo «di sinistra con un ministro dell’Istruzione di estrema sinistra». Pap Ndiaye ha di sicuro la funzione politica di rendere meno dure le critiche di Jean-Luc Mélenchon e di riattivare lo scontro, anche sul terreno culturale, con l’estrema destra. Ma dovrà occuparsi di dossier molto tecnici e complessi senza avere alcuna esperienza della macchina amministrativa di un ministero che gestisce un budget di 73 miliardi di euro e oltre un milione di dipendenti.
L’altra nomina sorprendente, e anche interessante vista dall’Italia, è agli Affari esteri. La nuova ministra, Catherine Colonna, lascia il suo posto di ambasciatrice francese a Londra per guidare uno dei ministeri più prestigiosi, senza che il suo nome fosse mai stato citato nelle scorse settimane. Diplomatica di carriera, ex ambasciatrice anche in Italia, è adesso alla testa di una delle amministrazioni meno semplici: i rapporti tra il corpo diplomatico e Macron sono pessimi, come dimostra lo sciopero convocato proprio questa settimana per il 2 giugno, evento rarissimo che viene dopo anni di incomprensioni. Il presidente ha mostrato una certa insofferenza nei confronti del ministero degli Esteri, che ritiene troppo lento e autonomo, e ha centralizzato all’estremo la conduzione della politica estera all’Eliseo, dove lavora una piccola cellula a lui fedelissima ma costantemente sotto organico, che tiene molto spesso all’oscuro i funzionari più importanti. La scarsa influenza del Quai d’Orsay su Macron è stata evidente nella scelta, resa pubblica negli scorsi mesi, di sopprimere il corpo diplomatico per far confluire la carriera dei diplomatici all’interno di quella degli alti funzionari. Sarà interessante capire come una diplomatica di carriera riuscirà a mediare tra i suoi ex colleghi e il presidente, e in che rapporti sarà con il prossimo consigliere diplomatico dell’Eliseo, ruolo che molto probabilmente sarà lasciato vacante da Emmanuel Bonne.
Consigli di lettura e fonti
Secondo l’Opinion ci sono due sorprese e molti riciclaggi; il Monde sottolinea la grande continuità dopo un mese di tergiversazioni; per il Figaro invece la stabilità nasconde una grande rottura sulla scuola, e dedica molti articoli a Pap Ndiaye: un riassunto delle reazioni, un’analisi sui dossier che dovrà affrontare. Mediapart sostiene che le reazioni agli attacchi che Ndiaye subirà inevitabilmente diranno molto sulla solidarietà del governo nei suoi confronti, mentre Libération si limita a un suo lungo ritratto. La sua lunga intervista concessa al Monde nel 2019, in cui parla del suo lavoro di storico e della sua idea di razza e diversità in una società come quella francese.
Le Point scrive che il “casting” del governo dà parecchie lezioni su come saranno i prossimi cinque anni; L’Express approfondisce la grande incomprensione tra il ministero degli Esteri e Macron.