I sondaggi decidono le elezioni? - Marat n. 14
Candidati e giornali criticano gli istituti di analisi, accusandoli di fabbricare fenomeni politici e influenzare la campagna elettorale. In realtà coprono un vuoto: ci sono poche idee e poche novità
«Chiedo scusa ma questa cifra è un “bidone”. Zemmour al 17%? Non vuol dire nulla, non ha un valore reale», Raphaëlle Bacqué, esperta editorialista del Monde, invitata in un talk show di France 5, dà voce a un’idea ricorrente in ogni elezione: i sondaggi, che fotografano una realtà virtuale, influenzano troppo il mondo politico e mediatico reale, costretto a commentarli e analizzarli come se fossero il solo dato rilevante della campagna elettorale che sta per cominciare.
In studio, Roland Cayrol, politologo e sondaggista altrettanto esperto, le risponde duramente: «Non posso lasciar dire una cosa così mostruosa. I sondaggi funzionano in modo preciso: si interrogano un gruppo di persone rappresentative del corpo elettorale in funzione di una tecnica scientifica, si domanda a queste persone se vogliono prestarsi a una simulazione di voto, e si raccoglie la loro preferenza. Su cento ce ne sono tredici, quattordici, quindici, diciassette che rispondono Zemmour. E sono delle cifre che non vogliono dire nulla? Tre giorni fa rispondevano Zemmour in dieci, una settimana fa in sette, un mese fa in cinque. E questa progressione non vuol dire nulla?».
Lo scontro piuttosto acceso racconta bene il momento particolare che sta vivendo l’opinione pubblica francese. Paul Cébille, che lavora all’Ifop, tra i più antichi istituti di analisi dell’opinione, mi ha spiegato che le polemiche sui sondaggi sono ricorrenti a ogni elezione. Cébille difende la categoria, con qualche ragione: «Noi non “creiamo” fenomeni, i sondaggi testano decine di candidati, alcuni sono stabili al 2% da anni eppure compaiono in ogni sondaggio. Se qualcuno fa registrare un’ascesa è perché qualcosa nella società lo spinge, non perché lo inventiamo noi».
Allo stesso tempo, i sondaggisti non sottovalutano l’impatto che le loro rilevazioni possono avere sulla campagna elettorale, perché è impossibile non ammettere che esista: «Gli elettori guardano il livello di consenso raggiunto dai candidati e scelgono anche in base a questo: il voto utile esiste ed è sempre esistito», concede Cébille. «Però i sondaggi seguono delle regole, esiste una legge che definisce precisamente cosa sono, gli istituti sono molti e quindi chi vuole può comparare le diverse analisi».
Ciononostante, alcuni giornali hanno criticato duramente le ultime rilevazioni d’opinione, in particolare quelle che sottolineano la grande ascesa di Éric Zemmour, ormai stabile tra il 13% e il 17%, e in qualche sondaggio qualificato al secondo turno. Nella sua edizione dell’11 ottobre, il Monde ha dedicato due pagine al fenomeno, con un’inchiesta affidata a quattro giornalisti, seguita da un editoriale non firmato che riflette la posizione del giornale. La tesi del quotidiano è che i sondaggi siano diventati una sorta di “giudice di pace” delle competizioni interne ai partiti, e di fatto dell’elezione presidenziale stessa.
I giornali non sono gli unici critici. Jean-Luc Mélenchon, candidato della France Insoumise (sinistra radicale), conduce da tempo una battaglia contro i sondaggisti, al punto di aver annunciato nel 2019 la creazione di un nuovo istituto di sondaggi «realmente indipendente». Anche Marine Le Pen, nelle ultime settimane, ha commentato i sondaggi in modo sprezzante: «L’elezione presidenziale si terrà tra duecento giorni. E quindi questa follia che sta colpendo i nostri media, con due sondaggi al giorno che dicono tutto, il suo contrario, e mai la stessa cosa, non è ragionevole». Va notato, tuttavia, che il Rassemblement national è sotto pressione a causa dell’ascesa di Éric Zemmour: una situazione nuova e potenzialmente molto pericolosa che ha trasformato i sondaggi in un problema di consenso percepito per Le Pen, che prima era comodamente proiettata al secondo turno.
Il punto, probabilmente, è che la situazione politica è ancora vaga, e dunque le previsioni elettorali diventano la notizia più importante a causa della scarsa concorrenza. Emmanuel Macron non ha ancora annunciato se si ricandiderà, e difficilmente lo farà prima di dicembre, anche se appare una semplice formalità. A lui non conviene annunciarlo troppo presto: più resta Presidente, più mostra di avere uno “status” diverso dagli altri candidati, che sono impegnati in polemiche mentre lui guida il paese. Nemmeno Éric Zemmour è candidato, e aumenta le ambiguità su quando e come annuncerà la sua decisione.
La sinistra si divide tra tre candidati: Anne Hidalgo, dei socialisti, Jean-Luc Mélenchon della France Insoumise, Yannick Jadot degli ecologisti. La destra moderata invece non ha ancora scelto, mentre Marine Le Pen è in campo praticamente dal giorno dopo il secondo turno del 2017.
È chiaro che in questo contesto di grande incertezza i sondaggi diventino il parametro più utilizzato per analizzare ciò che accade. Tuttavia, la campagna elettorale ha un suo peso, serve a smentire i sondaggi, a cambiarli, a imporre i propri temi all’opinione pubblica. Il 2017 è un esempio utile: Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon aumentano i loro consensi perché conducono una campagna che attira e muove l’elettorato. Questa capacità si riflette sui sondaggi: in particolare, la curva di Jean-Luc Mélenchon si incrocia con quella di Benoit Hamon, candidato del Partito socialista e quindi suo “rivale” a sinistra. È possibile che l’ascesa nei sondaggi del leader della France Insoumise abbia giocato un ruolo per spostare l’elettorato di sinistra verso di sé, ma questa è stata la conseguenza della sua strategia, non la causa.
I politici criticano i sondaggi, li accusano di influenzare il dibattito, però quando conviene li utilizzano politicamente. Xavier Bertrand, ex ministro di Sarkozy e presidente della regione Hauts-de-France, ha per esempio puntato tutto sui sondaggi per affermare la propria candidatura.
Bertrand, che aveva lasciato il centrodestra moderato dei Républicains nel 2017, intendeva diventare il candidato del suo ex partito evitando primarie o conte interne. Insomma, venire riconosciuto come leader “naturale”, grazie alla capacità, certificata dagli istituti di analisi, di arrivare al secondo turno.
Un azzardo che non ha pagato. Bertrand non ha sfondato, i sondaggi non hanno registrato una particolare dinamica positiva (sempre fermo tra il 13% e il 17%) e così si è dovuto piegare alla procedura del partito: parteciperà al congresso interno riservato agli iscritti che si svolgerà a dicembre e che sceglierà il candidato tra sei aspiranti leader: Michel Barnier, Xavier Bertrand, Eric Ciotti, Philippe Juvin, Denis Payre e Valérie Pécresse.
La settimana scorsa abbiamo parlato del fenomeno Zemmour, che si è imposto anche grazie alla spettacolare ascesa nei sondaggi, che confermano tutti, con gradi diversi, che la sua candidatura è più che solida.
È un’ascesa inaspettata e che pone dei problemi ai sondaggisti: come ci si comporta quando un sondaggio è sorprendente, quando un candidato fa registrare un valore molto diverso rispetto alla rilevazione precedente? Cébille spiega che in primo luogo «ci si fida del proprio metodo», e in secondo luogo ci sono delle indagini di lungo periodo che aiutano a relativizzare l’anomalia. L’Ifop, per esempio, a partire da febbraio lancerà un sondaggio quotidiano, che permetterà di osservare i cambiamenti emersi in una singola rilevazione alla luce di un contesto più ampio.
Il problema principale, in realtà, mi spiega ancora il sondaggista, è riuscire a valutare fino in fondo il peso dell’astensione, variabile che ha molto influito sulle ultime elezioni regionali, quando i sondaggi si sono rivelati poco precisi: «Se centinaia di migliaia di persone decidono di non andare a votare ma nei sondaggi rispondono che lo faranno, allora abbiamo una modifica sostanziale dei rapporti di forza. Le persone sono sempre meno fedeli alla loro intenzione di voto, le evoluzioni possono essere rapidissime».
Le intenzioni di voto non sono le sole rilevazioni condotte, seppure abbiano una copertura mediatica quasi ossessiva. In realtà, le più utili sono quelle che raccolgono le principali preoccupazioni dei francesi. Come sapete questa newsletter le utilizza spesso, perché danno una chiave per interpretare la direzione intrapresa dal paese che sta per andare a votare. Non è un caso, per esempio, che Emmanuel Macron abbia puntato molto su due temi: la sicurezza, e il potere d’acquisto. Sono i due argomenti più ricorrenti in questo altro tipo di analisi, e Marat li ha affrontati in due episodi: il primo ad aprile e il secondo a settembre.
Forse uno dei motivi per cui il presidente è ancora il favorito, è che presta attenzione a queste rilevazioni, ignorando le curve degli altri candidati, che invece vi si soffermano in modo ossessivo. D’altronde, come scrive il Monde nel suo editoriale, «i sondaggi hanno acquisito il peso che gli hanno lasciato i partiti politici». Senza idee chiare è difficile vincere un’elezione presidenziale.
Consigli di lettura e fonti
Il lungo articolo del Monde sul peso dei sondaggi, e l’editoriale. Su Europe 1, l’annuncio di Mélenchon, che crea il suo istituto di sondaggi.
Alle ultime elezioni regionali, l’astensione è stata elevatissima e nessun istituto l’aveva prevista. Come mai? Lo spiega il Figaro in questa analisi.
Su France Culture, un bel dibattito tra il politologo Martial Foucault e il sondaggista Fréderic Dabi sul ruolo dei sondaggi.