Il salario minimo in Francia è un modello? - Marat n. 11
Il potere d’acquisto dei francesi sarà probabilmente al centro della prossima campagna elettorale. Se fosse davvero così, Macron avrebbe un vantaggio netto rispetto a tutti i suoi avversari
1.554,58 euro lordi, circa 1.200 euro al mese. Un lavoratore dipendente in Francia non può guadagnare meno di questa cifra per 35 ore di lavoro settimanali, 151,67 ore al mese; dal primo ottobre, a causa dell’aumento dell’inflazione, il salario minimo crescerà di circa 35 euro, arrivando a 1.589,47 euro. È uno dei salari minimi più elevati al mondo, vale per tutti, ed è in vigore in varie forme dal 1950. L’argomento è da sempre divisivo: conquista di grande civiltà o strumento diabolico che frena le assunzioni, onerosissime, e aumenta la disoccupazione?
Il dibattito è aperto da tempo, ma i francesi sono piuttosto legati a una parte importante di quello che considerano il “modello francese” di economia, caratterizzato da una elevata redistribuzione della ricchezza grazie ai generosi sussidi di disoccupazione, ai sostegni alle famiglie e ai servizi pubblici capillari.
L’Insee, l’Istat francese, calcola ogni anno quanto le politiche pubbliche incidono sul “livello di vita”, definizione che indica il reddito disponibile di una famiglia diviso in unità di consumo, un coefficiente determinato dalla quantità di persone che la compongono: il primo adulto vale 1 unità, gli altri componenti sopra i 14 anni valgono 0,5 unità, e 0,3 unità i minori di 14 anni.
Scrive l’Insee: «Nel 2019, prima della redistribuzione monetaria (l’insieme dei servizi pubblici garantiti dalla fiscalità generale, ndr), il livello di reddito medio del 20% delle persone più ricche era di 60.700 euro l’anno, 8,8 volte superiore al tenore di vita medio del 20% più basso delle persone (6.930 euro l’anno). Dopo la ridistribuzione, questo rapporto è 4,0: il tenore di vita medio del 20% più povero delle persone è aumentato del 71% e quello del 20% più ricco è diminuito del 22%. La riduzione dei divari è ancora maggiore agli estremi della distribuzione del reddito: il 10% delle persone con i redditi più bassi aveva un tenore di vita medio prima della redistribuzione di 3.260 euro l’anno, contro i 79.660 euro del 10% più alto, 24,4 volte di più. Dopo la ridistribuzione, questo rapporto si è ridotto a 5,8».
La storia del salario minimo fa capire come nasce questo modello, sviluppatosi negli ultimi decenni del Novecento. Nel secondo Dopoguerra, come tutta Europa, la Francia cresce grazie alla ricostruzione e agli aiuti del piano Marshall. L’economia, però, è ancora ingessata e molto regolamentata dal potere pubblico, un’eredità degli anni di guerra. Nel 1939, infatti, lo Stato aveva cambiato le regole della contrattazione, fissando in modo autoritario i salari; sindacati, datori di lavoro e lavoratori non potevano più contrattare, ma dovevano adeguarsi alle decisioni di Parigi.
Alla fine degli anni ‘40, con il ritorno alla normalità, si pone il problema del ritorno alla contrattazione: i sindacati aumentano i propri iscritti e la loro influenza, il Partito comunista guadagna consensi e la situazione sociale rischia di andare fuori controllo. Così, nel 1950, viene inserito per la prima volta un salario minimo orario basato sulla settimana lavorativa da 45 ore. Poco dopo, a causa della forte inflazione di quegli anni, il salario viene ancorato all’aumento dei prezzi, prima cresce automaticamente quando questa supera il 5%, poi la soglia viene abbassata al 2%. È lo Smig, salaire minimum national interprofessionnel garanti, il salario minimo nazionale interprofessionale garantito.
Jérôme Gautié, professore di Economia alla Sorbona di Parigi, ha spiegato a France Culture come si arriva a questa decisione, presa in modo abile dal governo che riesce a trovare una via di mezzo tra le richieste dei sindacati e le resistenze degli imprenditori: «Si ripristina la libertà di negoziare i salari, ma si teme che, nei settori in cui i sindacati sono deboli, ciò si traduca in salari molto bassi. Il salario minimo serve a “recuperare” i “buchi” lasciati nel sistema della contrattazione collettiva: una sorta di tetto per evitare le situazioni più estreme di sfruttamento. Certo, non era privo di secondi fini, i governi democristiani di quel periodo intendevano tagliare l’erba sotto i piedi del comunismo».
Il salario minimo funziona, la disoccupazione è bassa, l’economia cresce, e per tutti gli anni Cinquanta la situazione sociale è tranquilla. Poi, verso la fine del mandato di Charles de Gaulle, arriva il maggio 1968. La famosissima protesta comincia nelle università, ma presto raggiunge le fabbriche, dove gli operai chiedono un aumento dei salari, “anestetizzati” dall’introduzione del salario minimo: seguendo l’esempio degli studenti, il 13 maggio i sindacati dichiarano lo sciopero generale, oltre un milione di persone scende in piazza a Parigi, la Sorbona si dichiara “comune libero”. Il 15 maggio è occupato anche il teatro dell’Odéon, il 16 l’occupazione raggiunge le imprese di Stato: Renault, Air France, la Sncf e la Ratp. Il 19 è interrotto il festival di Cannes, il 20 vengono occupati i licei e il giorno successivo anche le sedi di Peugeot, Michelin, Bréguet, Citroën, EDF e GDF, le sedi dell’ordine dei medici e degli architetti, il 22 si contano ormai 10 milioni di lavoratori in sciopero, più della metà della forza lavoro. Anche la televisione pubblica entra in sciopero.
Il governo decide quindi di trattare anche cedendo alle pressioni degli imprenditori, terrorizzati dall’idea dell’esproprio proletario e della rivoluzione bolscevica: siamo in anni strani, c’è il muro di Berlino, il comunismo è in piena fase di espansione, o almeno così sembra. Ma non si può trattare in pubblico, non si può rischiare una risposta negativa, va prima sondato il terreno in privato.
Un uomo viene designato per portare avanti queste trattative segrete, è il giovane sottosegretario al Lavoro: Jacques Chirac. Chirac prende contatto con Jean Magniadas, consigliere economico del segretario della Cgt (la Cgil francese), poi, la notte del 24 maggio, mentre infuriano gli scontri, incontra Henri Krasucki, numero due della Cgt, in un piccolo appartamento a Pigalle, vicino Montmartre. Chirac arriva armato su consiglio dell’allora primo ministro Pompidou: meglio non rischiare, visti i tempi e il momento, un rapimento non è completamente da escludere. L’incontro ha successo, i sindacati sono d’accordo ad aprire una trattativa sulle condizioni di lavoro, e il pomeriggio del 25 maggio sono ricevuti a rue de Grenelle, al ministero del Lavoro. Il 27 maggio i sindacati annunciano che un accordo è stato raggiunto, ed è una vittoria storica: il salario minimo è aumentato del 35 per cento, il salario generale di circa il 10 per cento, i sindacati sono autorizzati a creare associazioni all’interno delle aziende (la sezione sindacale d’impresa). In cambio, gli scioperi devono finire. Non finiscono, ma questa è un’altra storia. Ciò che conta è che il salario minimo cambia nome da Smig a Smic, salaire minimum interprofessionnel de croissance, il salario minimo interprofessionale di crescita. Il modo di calcolo è diverso ed è basato sia sull’aumento dei prezzi sia sulla crescita del salario medio.
Veniamo a oggi. Non sappiamo ancora quali saranno i temi portanti della prossima campagna elettorale, ma l’ultima settimana è stata monopolizzata da due questioni. Quella dell’accordo saltato tra Francia e Australia per la vendita dei sottomarini, di cui abbiamo parlato nel precedente numero di Marat, e quella del potere d’acquisto dei francesi. Secondo un sondaggio pubblicato da Les Echos, il 56% della popolazione sostiene che il proprio potere d’acquisto sia diminuito durante il mandato di Macron.
Nella tabella a destra, il giudizio sulle politiche economiche del presidente è nettamente diverso secondo le categorie di reddito: i più ricchi (aisés) pensano che siano state positive, le categorie popolari e ancor di più le medie pensano che l’impatto sia stato negativo.
Tuttavia, alcune misure importantissime di questi anni hanno un consenso quasi unanime: l’87% dei francesi giudica in modo positivo gli aiuti durante la pandemia, l’80% è contento della soppressione della taxe d’habitation, una delle tasse sulla proprietà immobiliare. Anche la riforma fiscale che ha introdotto il sostituto d’imposta (prima anche i dipendenti guadagnavano il loro stipendio al lordo, pagando le tasse in autonomia) e quella che ha modificato i sussidi di disoccupazione godono di un ampio consenso, mentre la soppressione dell’imposta sulla fortuna, una tassa molto simbolica che colpiva i contribuenti più ricchi, è giudicata in modo nettamente negativo.
Sono numeri confortanti per il presidente uscente, per il quale non è semplice costruire la narrazione della propria campagna elettorale: il suo mandato è stato caratterizzato da due grandi crisi, quella dei Gilet gialli e quella pandemica, che hanno completamente rivoluzionato agenda e priorità del governo e dei francesi. Allo stesso tempo, è difficile impostare un discorso sull’orizzonte o sul cambiamento come nel 2017.
Ecco perché nelle ultime settimane Macron ha cominciato a far passare un messaggio: rispetto al 2017, ogni francese guadagna circa 170 euro al mese in più. Secondo diverse analisi è vero, in parte grazie all’aumento annuale dello Smic, che appunto cresce con l’inflazione e la media dei salari, e al prime d’activité, un’integrazione del reddito a carico dello Stato per chi guadagna meno o esercita attività precarie. In parte grazie ad alcune misure decise dal governo: da un lato la soppressione di alcune tasse sulla casa e delle tasse sui redditi, dall’altro la riduzione del costo dei contributi per le imprese e infine gli aiuti concessi durante l’emergenza Covid.
Le tre prossime slide sono tratte dall’edizione del Tg di France 2 di martedì 21 settembre:
Macron ha abbassato le tasse per più di 50 miliardi in cinque anni. Ne hanno beneficiato tutti i francesi.
In questo caso il contribuente celibe non può beneficiare della riduzione delle tasse perché il suo reddito imponibile è troppo basso, ma ha una riduzione netta delle spese per la casa.
In quest’altro caso, invece, che prende in considerazione una coppia giovane, i guadagni sono evidenti.
A volte la percezione è più potente della realtà, ed è per questo che Macron sta puntando molto sull’aumento del potere d’acquisto ottenuto grazie alle sue riforme. La strategia si articola in due parti: difendere il proprio bilancio ed evidenziare che gli avversari non ne hanno alcuno; lui ha gestito il potere e ha adottato politiche concrete, gli altri possono solo promettere, senza poter rivendicare risultati raggiunti.
E, come vedete dal prossimo e ultimo sondaggio, nessun avversario è considerato più credibile del presidente uscente per rilanciare il paese.
«Quand je me regarde, je me désole; quand je me compare, je me console». Per adesso Macron può fare sua questa massima attribuita a Talleyrand: «Quando mi guardo, mi intristisco; quando mi confronto, mi consolo».
Consigli di lettura e fonti
Il sondaggio e il commento di Les Echos sulla politica economica di Macron. I sindacati giudicano troppo bassa la crescita dello Smic, un problema molto sentito tanto che Le Monde ha scritto due editoriali sulla questione nel giro di poche settimane (qui il primo, qui il secondo). Il Tg di martedì 21 settembre, che tratta a lungo di questa questione e da cui ho “preso in prestito” le slide.
Le Point nota che ormai tutti i candidati hanno le loro proposte per aumentare il potere d’acquisto, ma pochi sono davvero credibili, mentre l’economista Pierre Madec ha spiegato al Monde che, guardando i numeri, molti francesi hanno aumentato la loro capacità di spesa negli ultimi due anni, e quindi intervenire in modo efficace per sostenere i più poveri senza sprecare risorse per chi non ne ha bisogno non è facile.
L’intervista di France Culture a Jérôme Gautié sull’introduzione del salario minimo, qui su France Inter un’intera trasmissione (Affaires sensibles) dedicata ai 70 anni della riforma del lavoro, su Marat del 2018 un racconto del maggio 1968 e dei grandi cambiamenti economici, sociali e politici che ha portato.