Éric Zemmour fa sul serio - Marat n. 13
Il polemista non è ancora candidato, ma ha superato Marine Le Pen nei sondaggi, imponendo la sua personalità e i suoi temi. La sua ascesa è il punto di arrivo di vent’anni di carriera televisiva
«Zemmour président, Zemmour président», dopo circa due ore di spettacolo, i sostenitori del polemista Éric Zemmour, venuti ad ascoltarlo e ora accalcati in una sala del Palais de Congrès di Parigi per strappare una dedica sulla copia del suo nuovo libro, La France n’a pas dit son dernier mot (La Francia non ha ancora detto la sua ultima parola), scandiscono il coro in genere riservato ai candidati all’elezione presidenziale.
Zemmour, onnipresente dall’inizio di settembre nel panorama mediatico, è protagonista di un’ascesa nei sondaggi mai vista prima: in poco più di un mese ha triplicato i suoi consensi. Qualcosa sta succedendo e lunedì 4 ottobre, al Palais des Congrès, questo “qualcosa” si percepisce, come se il pubblico in sala anticipasse ciò che accadrà due giorni dopo, mercoledì, quando il settimanale Challanges pubblicherà questo sondaggio condotto da Harris Interactive.
La sala principale del Palais è piena, i 3.700 biglietti per ascoltare il dialogo tra Éric Zemmour e il filosofo Michel Onfray sono esauriti da giorni nonostante il prezzo, tra i 24 e i 44 euro a seconda del posto. Il pubblico è perlopiù giovane, borghese, ben vestito, benestante. In una parola: parigino, diverso da quello che s’incontra, per esempio, ai comizi del Rassemblement national, dov’è più popolare, militante, impegnato (come scrissi nel reportage dalla Provenza lo scorso giugno), o a quello dei Républicains, il centrodestra moderato, che attira un elettorato più anziano.
In due ore si possono affermare molte cose, e i due protagonisti affrontano numerosi argomenti, a partire dalla loro infanzia, che si lega alla storia di Francia degli ultimi cinquant’anni. Ma chi ha pagato il biglietto lo ha fatto per ascoltare la visione del mondo di Zemmour: la retorica della grandeur francese in declino, dello scontro di civiltà tra Oriente e Occidente di cui la Francia sarebbe il fronte, il punto di partenza del grand remplacement, il “rimpiazzo” della popolazione di etnia caucasica giudaico-cristiana con quella arabo-musulmana. Tutto ciò aggravato da una generale «femminizzazione» della società occidentale, più debole, «impotente» di fronte all’invasione.
Il contesto è ambiguo, non è un comizio perché è un dialogo, non è pensato per i militanti ma per un pubblico pagante, non c’è organizzazione per accogliere la stampa, che per avere accesso alla sala ha negoziato per più di mezz’ora, me compreso. L’ambiguità è però la forza di questo “momento Zemmour”, che ufficialmente non è ancora candidato all’Eliseo. Eppure, mi assicura Antoine Diers, portavoce del movimento Les Amis d’Éric Zemmour, l’associazione che sta costruendo la futura campagna elettorale, la candidatura arriverà, anche se non sarà annunciata in modo tradizionale: «Non c’è un piano di comunicazione, non andrà al telegiornale delle otto di sera a dichiarare in modo solenne “sì, sono candidato alla presidenza della Repubblica”. Per ora ha scritto un libro e sta dicendo ai francesi “leggetemi”, tra un po’ potrebbe dire esplicitamente che è candidato e quindi dire ai francesi “votatemi”».
I dubbi sono pochi, molti eletti affermano ormai apertamente di essere disposti a firmare per sostenere la candidatura di Zemmour, che ha bisogno di 500 parrainages, firme di politici eletti (poco importa se siano eletti in Parlamento, in consiglio comunale o in consiglio regionale) per poterla depositare. I primi finanziamenti confermano la sensazione che la dichiarazione ufficiale sia soltanto una formalità: a fine settembre, il finanziere Charles Gave ha prestato 300 mila euro all’associazione Les Amis d’Éric Zemmour. E il fatto che sia un prestito e non una donazione è indicativo, perché Gave ha immaginato questa somma come un investimento a bassissimo rischio: i candidati che raccolgono più del 5% hanno diritto a un rimborso dallo Stato.
Zemmour è un polemista, non ha mai fatto politica in prima persona, e in questo momento sta raccogliendo i frutti della sua durevole carriera interna al sistema mediatico, di cui però a lungo è stato un outsider, l’ingrediente di successo di show televisivi popolari, una sorta di oggetto di design un po’ strambo che non c’entra molto col contorno ma dà carattere a una stanza che altrimenti avrebbe meno personalità.
Nato a Montreuil, periferia orientale di Parigi, 62 anni fa da una famiglia ebrea di origine algerina, Zemmour comincia a lavorare in diversi giornali all’inizio degli anni Novanta, per poi integrare il servizio politico del Figaro nel 1996. Brillante e provocatorio, si fa notare anche da altri media, finché nel 2002 viene ingaggiato dalla rete I-Télé per partecipare a Ça se dispute, “possiamo discuterne”, che diventa il marchio di fabbrica di tutta la sua carriera televisiva: affiancato da un altro editorialista, che in questo caso è il direttore dell’Express Christophe Barbier, e moderato da un conduttore, Zemmour commenta e analizza l’attualità politica.
Javi Gómez, giornalista spagnolo all’epoca inviato in Francia da La Razon ed Europa press, in quel periodo partecipava a un programma con altri corrispondenti in onda subito dopo quello di Zemmour. Mi ha raccontato gli esordi del polemista: «Quando si spegnevano le telecamere, Zemmour era un’altra persona: simpaticissimo, divertente, gentile, affabile. Ci incontravamo spesso in sala trucco o nei corridoi della rete, parlavamo di calcio, di politica, un po’ di tutto. La sensazione era che avesse capito come sfruttare il mezzo televisivo a suo vantaggio, interpretando una parte che coglieva un sentimento presente nella società. Poi, probabilmente nel corso degli anni, il personaggio che ha creato ha preso il sopravvento, ma di sicuro è un grande professionista di se stesso».
Ça se dispute è un successo e va in onda per oltre dieci anni, e a questa collaborazione Zemmour ne affianca un’altra, che contribuisce alla sua popolarità e alla sua fama di intellettuale e uomo di cultura. È uno degli ospiti fissi di On n’est pas couché su France 2, un programma in onda in seconda serata basato su un dibattito con gli ospiti di turno, spesso invitati a presentare il loro libro. Il ruolo di Zemmour è stroncare i libri degli ospiti e polemizzare con loro. I suoi interventi si fanno sempre più radicali, finché non viene allontanato prima da On n’est pas couché nel 2011 e poi anche da Ça se dispute nel 2014.
Sempre nel 2011, Zemmour è condannato per provocazione alla discriminazione razziale per aver affermato: «Perché alcune categorie sono controllate 17 volte in mezzo alla strada? Perché la maggioranza degli spacciatori sono neri e arabi. È così, è un fatto». Una condanna simile a quella ricevuta nel 2018 per aver detto che ai musulmani bisognava imporre una scelta «tra la Francia e l’islam», una religione che per Zemmour non è compatibile con la République, e per aver detto che il paese «subisce un’invasione da trent’anni. In moltissime periferie francesi, dove molte ragazze indossano il velo, c’è una lotta per islamizzare il territorio».
Nonostante condanne e critiche per i suoi attacchi violenti all’islam, Zemmour trova comunque il modo di essere presente sui media, continua a scrivere per il Figaro, tiene una rubrica fissa su Rtl, e nel 2011 lancia un altro programma, Zemmour et Naulleau, condotto insieme alla sua spalla, Éric Naulleau, in cui il format è sempre lo stesso: i due conduttori interpretano ognuno una corrente politica, e ospitano personalità con cui discutono animatamente.
Il tre ottobre è morto Bernard Tapie, politico e imprenditore molto famoso durante gli anni Ottanta e Novanta. In questi giorni i suoi scontri in televisione contro Zemmour hanno trovato nuova giovinezza.
Le svolte della sua carriera, che lo conducono fino alla probabile candidatura alle presidenziali, sono due. La prima avviene nel 2014, quando è pubblicato Le suicide français, che stando ai dati pubblicati dal Monde ha venduto in totale 477 mila copie (e che in queste settimane è tornato a venderne molte ). Un saggio di oltre cinquecento pagine che porta all’attenzione del grande pubblico le sue idee radicali: la Francia ha perso la sua egemonia, non soltanto nel mondo, ma anche in ampie parti del suo territorio nazionale. L’unico modo per affrontare questa situazione è ribellarsi, ammettere che l’islam politico ha un’agenda, che è quella di sommergere l’Occidente e rimpiazzarlo.
La seconda svolta è del 2019, ed è frutto di un processo avviato due anni prima, quando il magnate televisivo e finanziere Vincent Bolloré decide di acquistare I-Télé e trasformarla in un megafono per le idee conservatrici ed estremiste. Dopo l’acquisto e mesi di conflitto tra l’editore e la redazione, che non intendeva adeguarsi alla nuova linea editoriale, un terzo dei giornalisti si dimette. Nasce così il canale televisivo CNews, che sostituisce I-Télé.
Il formato del canale è simile ai nostri SkyTg24, Rainews24 o TgCom24: una rete di informazione in diretta con telegiornali e programmi di approfondimento che si alternano durante tutto l’arco della giornata. La particolarità di CNews è che, mentre i canali all news tentano di avere un approccio neutro, per quanto possibile, la linea editoriale è esplicitamente vicina all’estrema destra, è spesso complottista e tratta in maniera ossessiva l’immigrazione, l’insicurezza, il pericolo rappresentato dall’islam.
Zemmour non vuole soltanto espellere gli immigrati «delinquenti», ma anche gli extracomunitari disoccupati.
CNews ha un solo obiettivo, diventare il canale all news più visto di Francia superando BFMTV, leader del settore. C’è soltanto un modo, convincere Zemmour a far parte dell’avventura: «Bolloré ha insistito perché io accettassi un programma quotidiano. Ho resistito senza troppa convinzione», per poi accettare. Un’ora al giorno per cinque giorni alla settimana in cui è, di fatto, padrone assoluto, con co-conduttori e ospiti di contorno, a cui si aggiunge di tanto in tanto un “oppositore” vero.
Da quest’anno Bolloré ha acquisito anche Europe 1, tra le più antiche e importanti radio private francesi, da tempo in crisi, generando un cambio di linea anche di questa emittente, soprannominata da molti “radio CNews”. Insieme a Valeurs Actuelles, settimanale vicino all’estrema destra e sempre più al centro del dibattito politico, queste due stazioni radiotelevisive rappresentano un ecosistema mediatico che fa da cassa di risonanza per Zemmour. E viceversa: «Per la progressione delle nostre idee ha fatto più Éric che il Front national in 45 anni di esistenza», ha dichiarato il direttore di Valeurs Actuelles, Geoffroy Lejeune.
La sensazione è che Zemmour esprima ad alta voce concetti che in molti pensano ma non hanno il coraggio di dire, almeno questo è quello che spiegano le persone che vanno a sentirlo: «Descrive tutto ciò che i francesi vivono quotidianamente, senza trattenersi e in modo chiaro. C’è una constatazione condivisa: non possiamo risollevarci se non riduciamo drasticamente l’immigrazione clandestina e se non ristabiliamo l’autorità delle forze dell’ordine e della giustizia contro i delinquenti», riassume Antoine Diers.
Zemmour conduce da tempo una battaglia per imporre nomi francesi ai bambini, in particolare quelli di origine arabo-musulmana. Questo stralcio di intervista è molto interessante, perché fa capire il suo modo di ragionare e la sua capacità di provocare: «L’imprenditore che non assume un impiegato in ragione del suo nome ha tutto il diritto di farlo», afferma.
Non solo, la dimensione intellettuale, la sensazione di ascoltare finalmente una personalità in grado di legare i temi di oggi alla celebre storia di Francia, e di fare della sua conoscenza e delle sue citazioni di autori più o meno famosi un’arma politica, seduce la borghesia, attira chi si sente meno colto ma pretende un dibattito all’altezza delle sfide enormi che la Francia ha davanti a sé. Poco importa che moltissime referenze storiche siano sbagliate o interpretate a suo uso e consumo, come quando ha affermato che il governo collaborazionista del maresciallo Pétain ha «salvato gli ebrei francesi dalla deportazione in Germania», un acclarato falso storico, in cui Zemmour sfrutta la sua origine ebraica per dire impunemente frasi di solito utilizzate dagli antisemiti.
Infine, la sua quasi-candidatura è la sola, veramente, antisistema: ormai Marine Le Pen partecipa al sistema politico, con le sue liturgie, le sue interviste, i suoi dibattiti, da più di quindici anni. Il contesto si presta all’irruzione di un disturbatore perché, come ha spiegato il politologo Dominique Reynié su France 5, ormai la politica francese è mossa da due forze: il «dégagisme», la volontà di eliminare i vecchi partiti che ha incarnato Macron nel 2017, e «la destituzione», la volontà di rimpiazzare leader non più adeguati. Come Marine Le Pen.
Per ora la sua candidatura è una bolla mediatico-parigina: quando si affronta l’argomento “politica” nei giornali, nelle tv e nei salotti non si parla d’altro, ma è molto probabile che nella Francia profonda il suo profilo e le sue idee siano per ora abbastanza sconosciute. CNews, d’altronde, sfiora il milione di telespettatori, che non sono moltissimi, soltanto in casi eccezionali. Insomma, non è una rete comparabile a Rai 1.
In questo tweet potete vedere riassunte le citazioni che i profili Twitter delle principali televisioni dedicano a Éric Zemmour. In questo senso si può parlare di «bolla mediatica», almeno per ora.
La strategia di Zemmour, l’unica con cui sarebbe davvero competitivo, è costruire un’alleanza tra classi popolari e «borghesia patriota», una sorta di «unione di tutte le destre», che oggi sono separate in due partiti, Les Républicains e il Rassemblement national, e che lui ritiene di poter unire attorno alla sua candidatura. Riuscirci è molto complesso, ma probabilmente il terreno non è mai stato così favorevole.
Consigli di lettura e fonti
La lunga carriera mediatica di Zemmour, raccontata dal Monde, a cui va aggiunta la strategia industriale (e non solo) di Vincent Bolloré, suo grande sponsor, sul Financial Times. Come Zemmour sta approfittando della sua particolare posizione di non-candidato, sempre sul Monde, ma questo forse danneggia le vendite del suo ultimo libro, scrive il Parisien.
La Croix ha pubblicato un’analisi approfondita sulle idee del polemista, mentre il Monde Diplomatique, due anni fa, si soffermava sul suo utilizzo della parola «popolo». Libération ha messo insieme tutti i suoi processi per diffamazione e incitamento all’odio razziale.
Challanges ha raccontato, un mese fa, prima che la popolarità nei sondaggi si manifestasse, i retroscena della pre-campagna di Zemmour. Elle si sofferma invece sul rapporto tra il polemista e le donne, alla luce delle sue numerose dichiarazioni misogine.