Il velo islamico, storia di un’ossessione francese - Marat n. 3
La laicità, l’islamo-gauchismo e le profonde divisioni nella società francese saranno centrali nella prossima campagna elettorale. Su tutto questo Macron ha una posizione ambigua
Il dibattito francese su sicurezza, identità, laicità, separatismo e terrorismo islamista ha radici profonde e complesse. E come ho accennato nel numero 2 di Marat, era impossibile fornire un quadro completo in un solo numero. Non lo è nemmeno in due, ma oggi aggiungiamo un tassello per completare il quadro, per quanto possibile.
Intanto, vorrei ringraziare le centinaia di lettori che hanno deciso di abbonarsi a Marat in anticipo: come ho spiegato nel numero 0, a partire dal 5 settembre 2021 la newsletter diventerà settimanale e potrà essere letta solo in cambio di un piccolo ma fondamentale contributo. Ed è già possibile farlo sin da adesso tramite il link qui sotto.
Cominciamo.
Il 18 settembre 1989, Fatima e Leïla Achahboun, due sorelle di 13 e 14 anni di origine marocchina, e Samira Saïdani, di 14 anni e di origine tunisina, entrano nella loro scuola media di Creil, una piccola città a circa 60 chilometri da Parigi. Hanno l’hijab, il velo, il foulard che copre loro la testa.
Quella mattina, il preside Ernest Chénière, dopo settimane di tentennamenti su come trattare la questione, giudica che il loro abbigliamento «non rispetta la laicità» e le invita a togliere il velo. Le ragazze rifiutano e vengono rimandate a casa.
Sembra una questione senza grande importanza, soltanto i giornali locali si interessano alla vicenda, se ne parla nei café del paese, abituato a una grande diversità etnica e forse anche per questo poco sorpreso da un caso che, si pensa, verrà risolto in modo pacifico.
Finché, dopo un lungo reportage del Courrier picard ripreso il 3 ottobre da Libération, il caso esplode, la stampa nazionale si mobilita, centinaia di giornalisti arrivano nel paese e nei due mesi successivi, riporta il Monde, più di 500 articoli trattano della questione che da mediatica diventa velocemente politica.
La Francia, in quel momento, è governata dai socialisti: François Mitterrand è presidente della Repubblica, Michel Rocard è primo ministro. Come sempre, il partito è attraversato da divisioni e rivalità, e la laicità è una delle più profonde.
Il 25 ottobre il ministro dell’Istruzione Lionel Jospin è all’Assemblea nazionale per rispondere alle “questioni di attualità” dei deputati. Arriva puntuale una domanda su Creil, e su come intende muoversi il governo. Jospin, visibilmente a disagio nel cercare di assumere la posizione meno divisiva possibile, dichiara in modo un po’ contraddittorio: «La laicità dice che la scuola deve essere una scuola di tolleranza, dove non si mostrano, in modo spettacolare o ostentatorio, i segni della propria appartenenza religiosa. La scuola è fatta per accogliere i bambini, non per escludere. I professori e i presidi devono spiegare che il foulard non è la tenuta giusta, ma se gli allievi rifiutano di toglierlo la scuola deve accoglierli e accettarli».
Il servizio del 1989 sul dibattito all’Assemblea nazionale (ci sono anche due sorridenti deputati con il foulard, in segno di protesta)
La laicità a cui si riferisce Jospin è quella stabilita dalla legge del 1905 «di separazione tra le chiese e lo Stato». È citata sempre nei dibattiti sul tema, raramente viene letta o ricordato il suo spirito. La legge è lunga, e prevede una serie di disposizioni che garantiscono la neutralità dello Stato negli affari religiosi.
Ciò che conta è principalmente l’articolo 1, breve e semplice: «La Repubblica assicura la libertà di coscienza. Essa garantisce il libero esercizio dei culti che possono essere sottoposti unicamente alle restrizioni elencate di seguito, nell’interesse dell’ordine pubblico».
Che vuol dire? Che la libertà di coscienza, ciò che si pensa nella propria intimità, è assoluta, non può essere limitata. Il libero esercizio del culto non indica la possibilità di andare in chiesa, in moschea, al tempio, ma la semplice manifestazione esteriore di questa libertà di coscienza: se in qualunque spazio aperto al pubblico indosso una croce, un saio, una kippah, sto esercitando il mio culto.
Patrick Weil, uno dei massimi esperti di laicità, spiega cos’è in 7 minuti. Se capite il francese vale la pena ascoltarlo
Come potete immaginare, l’impianto della legge del 1905 non dà grandi margini di manovra al governo socialista: se la scuola in sé, attraverso i suoi insegnanti, è laica, questo non vale per gli alunni, che possono esercitare il loro culto a condizione che non esercitino pressione sui compagni affinché questi manifestino o meno il loro credo religioso.
Il Consiglio di Stato, interrogato sulla questione, chiarisce che impedire di portare il velo «non sarebbe giustificato se non da un rischio per l’ordine dello stabilimento scolastico, o da un rischio di non funzionamento normale dell’insegnamento».
Così, nel dicembre dello stesso anno, Jospin decide di non decidere, e pubblica una circolare che lascia agli insegnanti la responsabilità di accettare o rifiutare il velo in classe, caso per caso.
Questa non scelta rende la situazione insostenibile. Dal 1994 al 2003 circa cento ragazze vengono escluse dalle scuole medie e superiori per questioni legate al velo, e molte di queste poi reintegrate dai tribunali. I presidi si lamentano di essere lasciati soli di fronte a degli atteggiamenti sempre più radicali: alcuni decidono di lasciar correre per quieto vivere, ma poi causano le proteste dei genitori degli altri bambini, mentre altri decidono di imporre una linea più stringente, alimentando le tensioni e la sensazione che la legge non sia uguale per tutti.
Soprattutto, la possibilità di portare il velo a scuola genera delle pressioni verso le ragazze cresciute in famiglie musulmane. I compagni di classe con le stesse origini le insultano o le minacciano: il velo è ammesso, se non lo indossi è una tua scelta e quindi sei una cattiva musulmana.
Il nuovo presidente Jacques Chirac capisce che la questione non può più essere lasciata irrisolta. Nel 2003 nomina una commissione di esperti guidata da Bernard Stasi, politico centrista di lungo corso, da cui prende il nome. La commissione, nominata in larga parte dall’Eliseo, è piuttosto equilibrata: le venti persone che ne fanno parte hanno una lunga e rispettata carriera nelle università, nella magistratura, nella scuola, nell’alta amministrazione statale o in Parlamento e portano sensibilità diverse.
C’è chi è favorevole all’eventuale legge per vietare il velo nelle scuole, chi invece è contrario, chi ha posizioni più sfumate. Eppure, dopo mesi di audizioni, discussioni e riflessioni interne, i “saggi” arrivano a una conclusione unanime: la legge è necessaria per proteggere la scuola e gli alunni dall’offensiva dell’islam radicale.
Il 17 dicembre 2003 Jacques Chirac presenta i risultati della commissione Stasi e annuncia che sarà proposta una legge per vietare i simboli religiosi ostentatori nelle scuole (quindi non tutti, soltanto i più visibili)
La dimensione “protettrice” si evince anche dal fatto che la legge si applica alla scuola e non all’università, dove si possono portare dei segni religiosi visibili perché a quel punto la personalità dell’universitario è formata e ha più elementi, nel caso, per difendersi da pressioni esterne.
Questa legge, e più in generale l’approccio alle questioni della laicità, hanno diviso profondamente la società francese (e anche la sinistra al suo interno) e hanno conseguenze sullo stato del dibattito attuale, purtroppo tutt’altro che pacificato e anzi radicalizzato dagli attentati terroristici che dal 2015 colpiscono ininterrottamente il paese.
Per capire meglio il dibattito, ho fatto una chiacchierata con Nicolas Cadène, Rapporteur général de l’Observatoire de la laïcité, una commissione che ha il compito di consigliare il governo francese sulle questioni di laicità. Secondo Cadène, la specificità francese viene da vari motivi.
«La Francia è un paese in cui la religiosità è molto debole, il paese è più o meno diviso in tre. Circa un terzo è credente, un altro terzo si dichiara ateo, il resto agnostico; ma anche chi è credente è poco praticante, quindi è poco “visibile”. C’è quindi tensione tra chi non crede e chi invece negli ultimi tempi professa il proprio credo in modo visibile».
Secondo Cadène, a questa incomprensione filosofica se vogliamo, si aggiunge una distanza concreta tra la popolazione credente e la restante parte. Dato che la religione in ascesa è quella islamica, ma è “confinata” in certi quartieri, che molto spesso sono anche i meno ricchi, questo accentua la divisione.
«Questo genera dei pregiudizi ovviamente, che non aiutano. E a questo si aggiunge l’ingerenza dei paesi stranieri che hanno diffuso delle tesi più rigoriste, salafiste tra i giovani senza che le autorità riuscissero a opporsi e senza che il culto musulmano francese si opponesse in ragione dei conflitti al suo interno e tra le comunità di origine».
E qui arriviamo all’attualità, che non è mai frutto del caso.
La settimana scorsa, Jordan Bardella, candidato per il Rassemblement national alla regione Île de France, ha duramente criticato un manifesto elettorale in cui una candidata di La République En Marche!, il partito di Macron, indossava il velo: «È così che combattete il separatismo?».
Ora, l’attacco è strumentale: indossare un velo è assolutamente legale perché i candidati alle cariche elettive non sono pubblici ufficiali, e possono quindi manifestare esteriormente la propria fede.
Eppure ha gettato nel panico Lrem, tanto che il segretario, Stanislas Guerini, ha rilanciato il tweet di Bardella, chiarendo che il velo «non è compatibile con i valori di La République En Marche!» e che la candidata non potrà indossarlo nelle foto per i manifesti elettorali se intende ancora presentarsi alle elezioni con il simbolo della maggioranza presidenziale. Un cortocircuito perfetto.
La questione è estremamente divisiva all’interno del partito di Macron, dove convivono una parte più rigida, rappresentata dai ministri e deputati che provengono dal centrodestra, e una più aperta, ex socialista. In molti si sono dissociati dalla decisione di Guerini, accusandolo di assumere posizioni simili a quelle dell’estrema destra.
Perché En Marche reagisce in modo così rapido all’accusa di connivenza con gli islamisti lanciata dal Rassemblement national? Dopotutto Macron ha varato in passato e continuerà a varare delle leggi molto dure per contrastare il terrorismo e il separatismo (temi che abbiamo affrontato nel numero 2 di Marat e in questo altro post).
Perché da tempo una parte della sinistra francese viene accusata di compiacenza nei confronti dell’islamismo radicale, ed è contro questa sinistra che negli ultimi anni i ministri di Macron hanno ingaggiato una dura battaglia intellettuale. Ancora, un cortocircuito perfetto.
Il termine che viene utilizzato per descrivere questo fenomeno è islamo-gauchisme. Lo ha utilizzato per la prima volta il filosofo Pierre-André Taguieff, che lo ha coniato per descrivere la vicinanza ideologica tra il terzomondismo, la sinistra radicale, e i militanti filopalestinesi. Vista la fortuna dell’espressione, ormai diventata dispregiativa, Taguieff è intervenuto su Libération per spiegarne l’origine: «L’espressione islamo-gauchisme per me aveva un valore strettamente descrittivo, e designava un’alleanza militante di fatto tra alcune frange islamiste e di estrema sinistra in nome della causa palestinese, eretta a nuova causa universale».
Ormai l’espressione ha vita propria, e viene utilizzata politicamente anche dai ministri. Dopo l’assassinio del professore Samuel Paty, il ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer aveva detto che «L’islamo-gauchisme devasta l’università», sostenuto anche da un centinaio di professori universitari che in una lettera aperta al Monde denunciavano «le ideoligie indigeniste, razialiste e decoloniali» ormai imperanti nelle facoltà.
A questo si aggiunge un’offensiva della ministra della Ricerca, Frédérique Vidal, che lo scorso marzo ha annunciato un’inchiesta sull’islamo-gauchisme all’università, perché «cancrena la società nel suo insieme e l’università non ne è impermeabile». Un modo secondo molti, tra cui il CNRS, la più importante istituzione di ricerca francese, per screditare le ricerche sulle discriminazioni «intersezionali», di ricercatori che sostengono che nella società esistano una pluralità di rapporti di dominazione, quindi di classe, ma anche di razza, di sesso.
D’altro canto, c’è una parte della sinistra che molto spesso taccia di “islamofobia” chi pone dubbi sull’islam radicale o chi critica alcune derive della religione islamica; i due concetti vanno insieme e se vogliamo si alimentano a vicenda, anche perché nelle situazioni di polemica più accesa servono a squalificare l’interlocutore.
Come dicevo, il dibattito sul velo, l’utilizzo di questo termine e anche i diversi atteggiamenti nei confronti di Charlie Hebdo, sono questioni che hanno profondamente diviso la sinistra al suo interno. Da un lato una corrente più intransigente (che i critici descrivono come radicalizzata), dall’altro una corrente più aperta (descritta invece come connivente).
Di queste divisioni, che fanno parte delle ragioni per cui la sinistra in Francia non conta più granché, parleremo ancora in futuro. Ciò che ci interessa è notare il cambiamento di Emmanuel Macron su questi temi.
Il presidente, all’inizio della sua carriera politica, sembrava propendere più per una visione aperta della laicità tanto che, da ministro dell’Economia, ebbe un duro scontro con Manuel Valls, che accusò di avere un atteggiamento da «radicalizzato» per la sua visione intransigente della laicità.
Negli ultimi anni il presidente ha cambiato posizione, ed è oggi nettamente più intransigente. Lo dimostra la legge sul separatismo di cui abbiamo già parlato, la nuova legge antiterrorismo e la crescente attenzione data ai temi identitari e di sicurezza.
Non sappiamo se la conversione sia genuina o strumentale, probabilmente c’è un concorso di entrambe le cose, ma il risultato è che le leggi emanate durante il suo mandato non saranno ricordate per la loro apertura, il contrario dell’impostazione della legge del 1905.
Sarà interessante capire quanto l’elettorato giudicherà il cambiamento come un “cedimento” alle pressioni del Rassemblement national, o un’evoluzione naturale delle sue convinzioni personali.
Fino al 5 settembre l’appuntamento con Marat è mensile, quindi ci risentiamo nel corso del mese di giugno. Ci saranno le elezioni regionali e le seguirò da Parigi e da Marsiglia.
A presto!
Consigli di lettura e fonti
Il giorno in cui la Francia si è divisa a causa del foulard, raccontato dal Monde,e da Libération. Un lungo documentario prodotto da LCP sulla laicità e le divisioni interne alla sinistra.
Se vi interessa la storia della laicità, consiglio due libri pubblicati in queste settimane: de la laïcité en France, di Patrick Weil, breve e chiarissimo sulla genesi della legge del 1905, e Mon islam, ma liberté, di Kahina Bahloul, teologa e prima imam donna di Francia.
L’Humanité ragiona sulla compatibilità della legge del 1905 con quella contro il separatismo che è in discussione in Parlamento. La legge non piace ai protestanti francesi, e François Clavairoly presidente della federazione dei culti protestanti, spiega al Figaro perché questo testo è un passo indietro.
Da dove viene islamo-gauchisme, raccontato da Libération, e dal suo inventore Pierre-André Taguieff. Una lunga intervista a Élisabeth Badinter, filosofa e grande critica della sinistra “connivente” con l’islamismo e un’inchiesta del Figaro sulle personalità più in vista di questa “corrente” di pensiero. Acrimed definisce l’islamo-gauchisme come una “caccia alle streghe”, mentre il Washington Post analizza con un certo stupore il dibattito.
L’Opinion critica duramente il segretario di En Marche! per come ha gestito la questione della candidata con il velo, mentre il Monde nota le enormi contraddizioni interne alla maggioranza su questi temi.