Parigi e Londra, così simili da non capirsi più - Marat n. 17
Negli ultimi anni le tensioni tra Francia e Regno Unito si sono moltiplicate, e la guerra sulle licenze di pesca è soltanto l’ultimo capitolo. Cosa c’è dietro questa incomprensione?
Il 27 ottobre, il peschereccio britannico Cornelis Gert Jan si trova in acque francesi, a largo del porto di Le Havre, e sta raccogliendo le coquilles de Saint Jacques, le preziosissime capesante che dalla Manica vengono esportate in tutta Europa. Poco dopo aver avviato le operazioni, il trawler viene avvicinato dalla guardia costiera francese, che chiede di salire a bordo per controllare la licenza di pesca: il Cornelis Gert Jan è una barca extracomunitaria, e non può operare nelle acque dell’Unione europea senza una apposita licenza. I britannici sostengono di averla, i francesi rispondono che non è valida, la discussione si esaurisce rapidamente e il peschereccio viene invitato a seguire la guardia costiera nel porto di Le Havre. Il carico è sequestrato, la nave costretta a restare ormeggiata e il capitano invitato a comparire davanti al tribunale di Rouen.
Dopo più di una settimana, una prima udienza e un probabile processo da tenersi nel 2022 per accertare l’eventuale attività illegale del Cornelis Gert Jan, la nave è “liberata” e può tornare in patria.
Può sembrare una storia laterale, uno dei tanti malintesi burocratici che accadono nei luoghi di confine; in particolare in mare, dove la frontiera è tracciata dalle linee costiere spesso invisibili. Il Cornelis Gert Jan (una nave che batte bandiera britannica, costruita in Belgio, di proprietà di una società canadese e capitanata da un irlandese, come nota lo Spectator per sottolineare che lo “sgarbo” non è soltanto diretto contro i britannici ma è più grave) è suo malgrado parte di una storia più ampia, che i giornali francesi, inglesi e internazionali hanno chiamato in mille modi, uno forse più esagerato dell’altro: guerra del pesce, odio secolare, rivalità strutturale, odio reciproco.
I francesi accusano gli inglesi di non rispettare gli accordi, assegnando le licenze dovute ai pescatori del nord del paese, abituati prima della Brexit a utilizzare spesso le acque territoriali inglesi tra le 6 e le 12 miglia dalla costa. Per ragioni culturali e di mercato interno (gli inglesi consumano poco pesce, i francesi e in generale gli europei continentali molto di più), la consuetudine va avanti da decenni, ed è stata una delle questioni negoziate nel trattato della Brexit.
Gli inglesi sostengono di aver accettato il 98% delle richieste europee, ma Parigi ritiene la percentuale fuorviante, perché le licenze non rilasciate sono quasi tutte richieste da pescherecci francesi (circa 200). La regola è che può continuare a pescare nella fascia tra 6 e 12 miglia dalla costa britannica chi lo faceva già prima del 2017. Il problema è che molti pescherecci francesi, i più piccoli, non possono dimostrarlo con i dati dei Gps di bordo (molti non ne hanno, altri non hanno conservato i dati): «Abbiamo un problema di metodologia, un certo numero di criteri scelti dagli inglesi sono esigenze supplementari rispetto all’accordo di Brexit. Non possiamo fornire dati che all’epoca non esistevano!», ha protestato il sottosegretario francese agli Affari europei, Clément Beaune.
Per settimane le due capitali hanno a tratti negoziato e a tratti apertamente litigato: Parigi ha minacciato di trattenere i pescherecci britannici (com’è accaduto al Cornelis Gert Jan), Londra di non rilasciare più alcuna licenza e di utilizzare la marina militare per respingere le navi francesi, tutto questo in un contesto di scontri anche fisici tra i pescatori delle due nazionalità. Giovedì 4 novembre, Clément Beaune e lord Frost, il ministro britannico per la Brexit, si sono incontrati per evitare altre ritorsioni o sanzioni, e si vedranno ancora la prossima settimana per tentare di risolvere una volta per tutte la contesa.
I numeri di questa disputa sulle licenze di pesca sono insignificanti, ma come tutte le dispute tra Stati ha assunto contorni isterici, ed è diventata un pretesto: tra le due capitali c’è qualcosa che non funziona più. I due leader che gestiscono e alimentano la crisi hanno interessi confliggenti e difficilmente componibili: Emmanuel Macron vuole dimostrare che la Brexit è un fallimento e che non conviene a nessuno lasciare l’Unione europea; Boris Johnson invece è stato eletto promettendo un nuovo inizio per il Regno Unito, e quindi deve rendere la Brexit un successo.
Macron non è ancora ufficialmente candidato, ma è già in campagna elettorale per la sua rielezione, e deve difendere la sua piattaforma politica: la sovranità europea sarà il tema centrale della presidenza di turno francese che prende il via a gennaio 2022, cedere su una questione di sovranità non è pensabile. Inoltre, un eventuale passo indietro del presidente può essere utilizzato politicamente contro di lui da Marine Le Pen e da Éric Zemmour, che da tempo sostiene che la Brexit sia stata un successo.
C’è poi la questione dei migranti: nel nord della Francia si forma un collo di bottiglia attraverso il quale, poco a poco, migliaia di persone raggiungono il Regno Unito attraversando la Manica in un viaggio piuttosto pericoloso, soprattutto in inverno, grazie a un sistema ormai collaudatissimo (e costosissimo) di passeur. Dall’inizio dell’anno, oltre ventimila persone hanno attraversato lo stretto, nell’ultima settimana due persone sono morte, la prima colpita da un treno mentre attraversava i binari, la seconda in mare.
In una lunga intervista al Monde, il ricercatore Olivier Cahn, esperto di diritto penale e dei rapporti anglo-francesi, ha spiegato che la Francia, rispetto ai flussi migratori, si trova in una posizione simile a quella della Turchia o del Marocco, paesi che hanno accettato di ridurre la propria sovranità per gestire migranti che non vogliono rimanere sul loro territorio, ma semplicemente attraversarlo.
Secondo gli accordi di Sangatte e una serie di protocolli annessi, i francesi hanno accettato di anticipare i controlli dei treni che attraversano la Manica partendo da Lille e da Parigi. Chi prende un treno a Gare du Nord può, dunque, essere respinto fin dalla stazione dalle autorità britanniche, che applicano leggi britanniche in territorio francese. I controlli non sono autorizzati solo per chi viaggia via treno, ma anche per chi vuole entrare nel Regno Unito via terra: pochi chilometri prima di prendere l’eurotunnel si può essere fermati e controllati da funzionari britannici in apposite piazzole di sosta.
Nel gennaio 2018, ho trascorso una giornata con i volontari che aiutano i migranti arrivati a Calais e nella regione circostante. Spesso in condizioni inaccettabili, continuamente braccati dalla polizia che vuole evitare la creazione di un enorme campo profughi come la Jungle, la baraccopoli che nei momenti di massima espansione accoglieva più di diecimila persone, la maggior parte irregolari, e che è stata smantellata nel 2016.
Tutta la zona intorno a Calais, dove passa l’eurotunnel e gran parte del traffico marittimo, è teatro di un ingarbugliato sistema di controlli bilaterali. Secondo gli accordi di Touquet, se i britannici controllano i flussi legali via treno, autobus e nave, i francesi pattugliano il confine per impedire i flussi illegali: le Ong accusano Parigi di trattamenti degradanti nei confronti dei migranti, Londra ritiene che il ministero dell’Interno francese non faccia abbastanza e lasci passare chi non ne ha diritto.

Il “tradimento” dei britannici sul dossier AUKUS non aiuta. Alla Francia l’atteggiamento britannico è parso talmente coerente con lo stato esecrabile delle relazioni bilaterali da non scatenare nemmeno una reazione: Parigi ha richiamato gli ambasciatori da Canberra e Washington, ha preteso da Joe Biden una compensazione (ottenuta) e da Scott Morrison un passo concreto (per ora non ottenuto) per ristabilire la fiducia, ma non ha chiesto niente a Londra.
Forse perché, in fondo, la Brexit e l’allontamento di Londra dal continente è vissuto come un’occasione dai francesi, che possono finalmente “desinglesizzare” le istituzioni europee, promuovendo per esempio un maggiore utilizzo del francese tra i funzionari dell’Unione, e presentarsi come unico paese membro che ha una politica estera mondiale, influenzando ancor di più quella europea.
In questo atteggiamento c’è anche una questione psicologica, come ha sottolineato in modo molto efficace il giornalista Tom McTague sull’Atlantic: «Lungi da essere diametralmente opposti, Francia e Regno Unito sono forse i due paesi più simili sulla Terra. Non solo in termini di popolazione, ricchezza, passato imperiale, portata globale e tradizione democratica, ma anche per questioni più profonde: il senso di eccezionalità, la paura del declino, l’istinto per l’indipendenza nazionale, il desiderio di rispetto e l’angoscia per il crescente potere di altri, che siano gli Stati Uniti, la Germania o la Cina. Londra e Parigi potrebbero aver scelto strategie diverse – entrambe potrebbero essere ugualmente meritorie – ma i paralleli tra queste due nazioni sono ovvi. Invece di vedere questo, tuttavia, ogni paese sembra diventare una sorta di specchio deformante per l’altro, impedendo una visione ragionevole del suo vicino con un’immagine di se stesso che assomiglia molto più a una raccolta delle proprie speranze e paure che a qualsiasi altra cosa».
Di questo, forse, gli inglesi si mostrano anche piuttosto consapevoli: «Qualcuno pensa che i francesi avrebbero agito in modo diverso se si fossero trovati al nostro posto?», ha detto un ministro britannico al Financial Times.
Probabilmente stiamo assistendo a un gioco di posture, e che nel lungo periodo i rapporti torneranno a essere più sereni. Dopotutto è una fase di transizione, il nuovo ruolo del Regno Unito nel mondo è ancora poco definito, così come la sua relazione con l’Unione europea, una volta che il processo di uscita sarà concluso per davvero. Ma in futuro, soprattutto per la Francia, il rapporto con gli inglesi continuerà a essere rilevante.
I due paesi sono legati da un comune destino nella difesa, specialmente in ambito nucleare, e non considerano «alcuna situazione in cui gli interessi vitali di uno possano essere minacciati senza che lo siano anche quelli dell’altro», come si legge negli accordi militari di Lancaster House, firmati il 2 novembre 2010. Non è poco, e vale più delle coquilles de Saint Jacques.
Consigli di Lettura e fonti
Lo Spectator si chiede se Macron abbia vinto la guerra del pesce, il Financial Times da dove venga questo scontro poco comprensibile, l’Atlantic prova a dare qualche risposta analizzando la psicologia delle due capitali.
Qui l’intervista di Olivier Cahn con il Monde, qui un episodio di Marat del gennaio 2018, dove raccontavo Calais, tra Brexit e migranti, il Guardian si interroga sulle scelte del governo Johnson, che rischia di isolare ancora di più il Regno Unito dopo Brexit.
La relazione bilaterale tra Francia e Regno Unito non è mai stata così disastrosa da Waterloo, scrive l’Express, e per Politico, i due paesi sono d’accordo soltanto su una cosa: le relazioni sono esecrabili.