La “pugnalata” angloamericana alle ambizioni della Francia - Marat n. 10
La rottura dell’accordo con l’Australia per la vendita dei sottomarini obbligherà Macron a reinventare la strategia nell’Indo-Pacifico. Il mondo è cambiato, Parigi se ne sta rendendo conto
Lo scorso 30 agosto i ministri degli Esteri e della Difesa di Francia e Australia discutono in videoconferenza del futuro della relazione bilaterale. L’incontro, per quanto da remoto, è importante, sembra un ulteriore passo avanti in una relazione già solida. Nel 2016, i due paesi hanno firmato un accordo per la fornitura e la manutenzione di 12 sottomarini a propulsione diesel che saranno costruiti in parte in Francia e in parte in Australia dall’azienda francese Naval Group, e poi utilizzati dalla marina australiana.
Per la Francia l’investimento politico è grande, l’Australia è uno dei tre paesi chiave, insieme all’India e al Giappone, della strategia indopacifica: una maggiore presenza militare, diplomatica e commerciale in un’area del mondo che sta diventando sempre più rilevante e incandescente.
Nella visione di Parigi, l’Indo-Pacifico non è soltanto un dossier di politica estera: nei territori d’oltremare, in Asia e Oceania che vedete evidenziati nella prossima mappa, vivono 1,6 milioni di francesi e sono acquartierati oltre settemila militari. Inoltre, grazie alla posizione geografica delle isole, in questa zona si trova circa il 75% della zona economica esclusiva del paese, cioè l’area marina in cui uno Stato esercita la sovranità sulle risorse economiche che vi si trovano, e giurisdizione sulle installazioni marittime che vi sono costruite.
Come di consueto, dopo l’incontro, le parti pubblicano un comunicato congiunto composto da ventisei punti, che si chiude con l’impegno a ripetere il summit nel 2022. Il punto numero 21 del comunicato, in quel momento, sembra sottolineare una questione di routine senza grande importanza.
Entrambe le parti si sono impegnate ad approfondire la cooperazione con l'industria della difesa e a migliorare le proprie capacità nella regione. I ministri hanno sottolineato l’importanza del programma Future Submarine. Hanno convenuto di rafforzare la cooperazione nel campo della ricerca scientifica militare attraverso un partenariato strategico tra il Gruppo per la scienza e la tecnologia della difesa [australiano] e la Direzione generale per gli armamenti [francese].
Esattamente due settimane dopo, il programma sottomarino non esiste più. È stato sostituito da un accordo firmato dall’Australia con gli Stati Uniti e il Regno Unito, che forniranno sottomarini a propulsione nucleare equipaggiati con missili Tomahawk a lungo raggio (non nucleari ma convenzionali). L’accordo si chiama Aukus, e non si limita alla fornitura dei sottomarini, è un patto di alleanza strettissimo tra potenze che si definiscono “democrazie marittime” e che legano le proprie traiettorie per i prossimi decenni.
Il ministro degli Esteri Jean Yves Le Drian l’ha definita una «pugnalata alle spalle», e ha deciso di reagire: gli ambasciatori francesi negli Stati Uniti e in Australia sono stati richiamati a Parigi per consultazioni, una scelta molto simbolica e dura in diplomazia.
La cronologia è importante per capire il punto di vista francese.
Sappiamo, da varie ricostruzioni pubblicate in questi giorni, che l’Australia ha cominciato a negoziare con Stati Uniti e Regno Unito circa sei mesi fa in formati molto piccoli e segreti perché temeva che, nel caso in cui ne fosse stata informata, Parigi avrebbe lavorato per sabotare l’accordo.
Secondo il Times di Londra, il primo vero incontro è avvenuto a marzo tra l’ammiraglio britannico Tony Radakin e il vice ammiraglio Michael Noonan, capo di stato maggiore della marina australiana. Durante il colloquio, l’australiano avrebbe detto al britannico che Canberra era interessata ad acquisire sottomarini a propulsione nucleare.
Subito dopo questa richiesta, a Londra si riunisce un gruppo ristrettissimo composto da sole sette persone a cui si aggiungono il primo ministro, il ministro degli Esteri e quello della Difesa. Il gruppo decide di lanciare l’Operazione Hookless: passare l’informazione a Washington e spingere per soddisfare le richieste australiane.
In poco tempo i tre paesi trovano un accordo di massima, e dopo dei colloqui informali tra gli staff, tra l’11 e il 13 giugno si tiene un primo incontro tra il presidente americano Joe Biden, il primo ministro britannico Boris Johnson e il primo ministro australiano Scott Morrison al G7 in Cornovaglia.
Tutto ciò in un contesto di evidente doppio gioco: mentre i capi di governo di Regno Unito, Australia e Stati Uniti definiscono il loro accordo trilaterale, incontrano anche il presidente francese Emmanuel Macron che, ignaro di tutto, ha delegato la gestione dei rapporti bilaterali con gli australiani a Jean-Yves Le Drian. Le Drian al G7 ha un’agenda fitta, ma trova il tempo di organizzare un bilaterale con il suo omologo australiano, senza che questi menzioni ripensamenti sul contratto per la fornitura dei 12 sottomarini.
Qualche giorno dopo, il 15 giugno, il primo ministro australiano è in visita all’Eliseo. Secondo la versione informale data alla stampa dai diplomatici francesi, Macron avrebbe chiesto esplicitamente a Morrison informazioni sull’accordo militare e in particolare se l’Australia fosse interessata a cambiare tecnologia, passando dalla propulsione diesel a quella nucleare. Sempre secondo il resoconto delle stesse fonti francesi, Morrison avrebbe evitato di rispondere, una scena simile a quella accaduta la settimana successiva, il 23 giugno, quando la stessa domanda viene posta durante un incontro tra i ministri degli esteri dei due paesi.
I francesi sapevano che l’accordo aveva dei problemi: una parte dell’opinione pubblica australiana e del Parlamento ha sempre criticato i ritardi e l’esplosione dei costi, e non era un mistero che il governo australiano fosse frustrato dalle lentezze francesi e sempre più intimorito dalla minaccia cinese. Preoccupata, la Francia aveva moltiplicato gli incontri e gli scambi. Oltre al livello politico, anche il settore industriale aveva preso sul serio la questione: l’amministratore delegato di Naval Group aveva deciso di andare in Australia per rassicurare la sua controparte, accettando di trascorrere due settimane in quarantena.
Tutto inutile, mercoledì mattina l’Eliseo è informato, poco prima dell’annuncio ufficiale, del nuovo patto trilaterale tra Australia, Stati Uniti e Regno Unito.
La prima reazione di stizza è giustificata dalla grandissima opportunità economica perduta: l’accordo franco-australiano valeva più di 50 miliardi di euro, di cui una decina investiti direttamente in Francia. Il settimanale Challanges scrive che Naval Group «impiegherà degli anni a riprendersi», e anche per i cantieri di Cherbourg, in Normandia, è un brutto colpo: circa 600 lavoratori francesi erano direttamente impiegati nel progetto, senza contare l’indotto.
Perché i francesi non hanno richiamato anche l’ambasciatore da Londra? Perché era inutile, ha detto Le Drian: «Conosciamo il loro opportunismo permanente».
Non bisogna nemmeno sottovalutare la dimensione personale: il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, ha negoziato personalmente questo contratto da ministro della Difesa tra il 2013 e il 2016; Philippe Etienne, oggi ambasciatore negli Stati Uniti, era stato consigliere diplomatico di Emmanuel Macron; lo stesso presidente ha puntato molto sul rapporto bilaterale con l’Australia, firmando nel 2019 un altro accordo, legato a quello del 2016, che regolava per cinquant’anni le relazioni tra i due paesi. Oltre a queste tre personalità pubbliche, bisogna considerare tutto il mondo diplomatico, militare e industriale coinvolto nelle trattative, che in questi giorni si sta esprimendo in forma anonima attraverso i giornali, contribuendo ad aumentare la tensione.
Infine, c’è senz’altro una spiegazione politica ai toni e ai modi utilizzati dall’Eliseo: siamo in piena campagna elettorale, e la reazione dura e antiamericana trova largo consenso nell’elettorato, che è sempre stato piuttosto freddo con Washington. Macron è un politico e tra sei mesi cercherà di essere rieletto: una vittoria si costruisce anche intorno a una narrazione, e quella che ha scelto è porsi come l’unico candidato in grado di proteggere i francesi (dalla pandemia, dalla crisi economica, e anche dagli sgarbi degli alleati).
Tuttavia, questa è soltanto una parte della questione. Antoine Bondaz, ricercatore alla Fondation pour la recherche stratégique di Parigi, tra i principali esperti di Asia, mi spiega: «La rabbia francese va contestualizzata e compresa: il danno non è soltanto economico, ma strategico, perché assistiamo al trasferimento di una tecnologia finora non condivisa. Le critiche violente nei confronti degli americani hanno questa radice, oltre alla percezione di essere stati traditi. La scelta di condividere la propulsione nucleare, oggi utilizzata soltanto da sei nazioni e altamente esclusiva, crea un precedente, e può innescare una corsa a ottenere la stessa tecnologia da attori rilevanti nell’Indo-Pacifico come il Giappone, la Corea del Sud o l’India».
Allo stesso tempo è importante sottolineare un punto, come aveva già fatto Benjamin Haddad nel numero di Marat dedicato all’Afghanistan, continua Bondaz: «La credibilità strategica americana resta intatta, contrariamente a quanto avevano detto in molti durante la ritirata da Kabul. Si tratta di un passo molto grande verso un alleato, quello australiano, e manda un messaggio chiaro alla Cina: gli Stati Uniti sono pronti a creare delle alleanze multilaterali e a proteggere chi è minacciato da Pechino». Questo è il motivo principale per cui gli australiani hanno scelto di rompere il contratto con la Francia: per rispondere alle crescenti minacce della Cina serviva una tecnologia più avanzata dal punto di vista militare e soprattutto la protezione dell’alleato americano. La decisione non è contro i francesi, ma contro i cinesi.
La conseguenza, in questo nuovo contesto, è che la Francia dovrà reinventare la propria presenza nella regione senza poter più contare su un rapporto privilegiato con l’Australia. Non sarà semplice.
Come spesso accade durante questo tipo di crisi internazionali, di fronte a una sconfitta diplomatica la reazione a Parigi è duplice. Da un lato, c’è chi ritiene che il fallimento di questo contratto e soprattutto le modalità con cui i francesi sono stati esclusi dal nuovo accordo, siano il segno evidente del declino del paese: la Francia vuole giocare in una categoria che non le compete. Dall’altro lato, c’è chi non si rassegna a questa realtà. Due persone molto informate sulle dinamiche interne alla difesa francese mi hanno raccontato che in questi giorni il mantra tra militari è: «Bisogna dotarci dei mezzi per raggiungere le nostre ambizioni».
Alle ambizioni è legato il modello dell’industria degli armamenti francese, che non ha un mercato interno capace di assorbire la capacità produttiva, ed è dunque altamente dipendente dalle esportazioni. In un mondo che sta tornando a un’impostazione bipolare, le due grandi potenze egemoni, Cina e Stati Uniti, lasciano meno spazio a una politica del genere, perché sarà sempre più difficile accedere a mercati strettamente legati ai primi due della classe.
Parigi ritiene da tempo che un modo per superare questi rischi sia puntare di più sul mercato europeo, siglando accordi con altri Stati per creare industrie più grandi e competitive e spingere gli eserciti nazionali a “comprare europeo”. Questo atteggiamento è implicitamente presente alla fine del comunicato in cui i ministri degli Esteri e della Difesa, Le Drian e Parly, spiegano cos’è accaduto e condannano il comportamento australiano e americano. L’ultimo paragrafo contiene un riferimento alla «necessità di portare in modo risoluto la questione dell’autonomia strategica europea. Non esiste altra strada credibile per difendere i nostri interessi e i nostri valori nel mondo, compreso nell’Indo-Pacifico».
Un riferimento fuori contesto: il contratto strappato ai francesi era stato negoziato al di fuori dell’Unione europea ed era stato ottenuto battendo la concorrenza dei tedeschi della ThyssenKrupp Marine Systems, che avevano anch’essi proposto i propri sottomarini agli australiani. È tuttavia un riferimento che spiega bene qual è il prisma con cui i francesi guardano all’autonomia strategica europea: un modo per “dotarsi” dei mezzi a cui fa riferimento il nuovo mantra dei militari. Non stupisce, dunque, che nessun capo di Stato europeo si sia espresso pubblicamente a favore della Francia in questi giorni.
Il grande tema della presidenza francese dell’Unione europea, che comincia a gennaio e coincide in larga parte con la campagna elettorale, sarà questo: riusciranno i francesi a cambiare la percezione che tutti gli europei hanno, e cioè che dietro l’autonomia strategica europea si nascondono delle ambizioni nazionali? Con dichiarazioni di questo tipo è difficile immaginarlo.
Consigli di lettura
L’accordo tra Regno Unito, Stati Uniti e Australia è un esempio concreto di cosa intende fare Joe Biden in politica estera, scrive l’Atlantic. Tuttavia, per ora l’accordo solleva parecchi dubbi, analizza il Financial Times nel suo editoriale.
Il Figaro accusa Biden di aver silurato il contratto, paragonando lo smacco alla sconfitta di Trafalgar, mentre su l’Opinion si preoccupa per le conseguenze internazionali della scelta americana di condividere il nucleare con uno Stato che non ha alcuna competenza né esperienza in materia. Su Politico, una ricostruzione del punto di vista australiano, in cui da un lato c’è la frustrazione per i ritardi francesi, e dall’altro la volontà di cogliere un’occasione storica.
Quale deve essere la strategia francese nell’Indo-Pacifico? Antoine Bondaz aveva scritto un lungo e dettagliato saggio sul tema prima della crisi diplomatica, oggi ancora più interessante (in inglese). E poi, la strategia ufficiale delineata dall’Eliseo, e anche il resoconto della discussione tra i ministri degli Esteri e della Difesa francesi e australiani.
Quali sono le vere ragioni per cui la Francia è stata esclusa dall’Aukus, sullo Spectator. Sempre dal lato inglese, il racconto del Times, che ha ricostruito i dettagli del primo incontro in cui gli australiani hanno detto di voler rompere l’accordo con i francesi: «come in un romanzo di Le Carré». Bloomberg cerca di capire come mai i francesi sono scioccati: non dovrebbero. Cosa è accaduto in questi mesi? Lo ricostruisce il New York Times.
Il Monde ha pubblicato un reportage da Cherbourg, la città che ospita i cantieri di Naval Group e che subirà le conseguenze della rottura del contratto, mentre Challanges analizza le ricadute economiche della decisione australiana.