La «disciplina dell’amicizia» tra Francia e Italia - Marat n. 20
Il Trattato del Quirinale firmato a Roma parte da una grande ammissione: pensiamo di conoscerci, in realtà non è così. La sfida è provare a capirsi meglio, e contare di più in Europa e nel mondo
Spesso si considerano gli Stati come entità fredde, asettiche, senza passioni, che nelle loro relazioni lasciano che sia la razionalità a prevalere e si comportano senza cedere ai sentimenti. A tratti può essere vero, ma le nazioni sono composte da individui, e i rapporti internazionali portati avanti da persone che per quanto possano essere particolarmente istruite, colte e formate, hanno le loro preferenze, parzialità, pregiudizi, antipatie, sospetti.
Il Trattato del Quirinale, o meglio “il trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica francese per una cooperazione rafforzata”, parte da questo presupposto, ed è stato firmato per evitare che le passioni e i sentimenti, mutevoli per loro natura, rovinino le relazioni bilaterali. L’Eliseo, nei giorni precedenti alla firma avvenuta venerdì 26 novembre, l’ha rivendicato in modo esplicito: «Con i paesi che sono a noi più vicini geograficamente e culturalmente diamo le prossimità per scontate. Ma questa rapidità, questo riflesso che ci porta a pensare di concordare su tutto ci conduce, a volte, a delle incomprensioni causate da una scarsa conoscenza reciproca».
Ho avuto spesso la stessa sensazione: Italia e Francia pensano di conoscersi, danno per scontato che la “comune radice latina”, spesso citata in convegni e cene ufficiali, sia sufficiente per avanzare nella stessa direzione senza confrontarsi, senza trovare un terreno condiviso. Esiste di per sé. D’altronde Jean-Paul Belmondo è il più italiano degli attori francesi, Italo Calvino ha vissuto e lavorato a Parigi, Claudia Cardinale è nota in Francia probabilmente quanto lo è in Italia e Guillaume Apollinaire è nato a Roma. E potremmo proseguire con un lungo elenco.
Tale superficialità è aggravata da un certo disprezzo francese, vero o presunto, che diversi alti funzionari italiani citano spesso quando parlano della relazione bilaterale.
Nel corso di un episodio di Cavour, il mio podcast sulla politica estera italiana, lo scorso maggio, Gilles Gressani, presidente del Groupe d’études géopolitiques, fornì una definizione molto calzante dei due atteggiamenti: «L’Italia viaggia in terza classe con un biglietto di seconda, la Francia viaggia in prima con lo stesso biglietto». L’Italia ha la tendenza a rappresentarsi come un paese che non conta nulla, vittima del suo complesso di inferiorità; la Francia pretende di essere ancora considerata una grande potenza mondiale, quando la sua taglia e le sue risorse non glielo consentono più. L’asimmetria alimenta incomprensioni e contrasti, il Trattato del Quirinale serve a ridurli.
Il Trattato prevede 12 articoli molto densi, ed è accompagnato da un piano di lavoro di 19 pagine dove viene spiegato in che modo i due Stati intendono mettere in pratica l’accordo. È un testo speciale: è il primo trattato di questo tipo firmato dall’Italia, mentre per la Francia è il secondo, dopo quello dell’Eliseo, che regola i rapporti franco-tedeschi.
La prima e più rilevante novità è l’istituzione di incontri regolari tra politici e alti funzionari, che dovranno quindi confrontarsi in un quadro istituzionale relativamente rigido. Saranno “costretti” a parlarsi, in qualche modo.
Gli scambi tra Roma e Parigi servono a conoscersi meglio, aumentano le consuetudini, aiutano a comprendere linguaggi e mentalità, strutturano un percorso che rende più semplice trovare un terreno comune per affrontare eventuali divergenze.
Un diplomatico italiano mi ha ribadito un concetto: i rapporti personali sono fondamentali in politica estera, «non soltanto tra leader, ma anche tra alti funzionari. Quando si discute, anche tra alleati, ci sono delle linee rosse: non puoi condividere tutto con il tuo omologo, sai di poterti spingere fino a un certo punto sullo scambio di informazioni. Queste linee però possono essere superate, nei limiti del buonsenso, quando l’interlocutore ha la tua fiducia e la ricambia: se c’è un problema da risolvere si lavora insieme anche facendo dei passi nei confronti dell’altro. Per arrivare a questa intimità è necessario però un rapporto molto stretto che si costruisce negli anni, magari facendo delle carriere parallele».
Il primo articolo del Trattato prevede che le parti si consultino «regolarmente con l’obiettivo di stabilire posizioni comuni e di agire congiuntamente su tutte le decisioni che tocchino i loro interessi comuni, incluso, ove possibile, nei formati plurilaterali a cui partecipa una delle due Parti».
Concretamente questo vuol dire, come mi hanno confermato fonti diplomatiche italiane, che la Francia si confronterà con l’Italia non soltanto prima dei vertici europei, ma condividerà informazioni anche prima di partecipare ai vertici dove questa non è presente: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite, per esempio, ma anche le riunioni del cosiddetto “formato Normandia”, il summit sulla guerra in Donbass a cui partecipano l’Ucraina, la Russia, la Francia e la Germania, o ancora gli incontri per l’accordo sul nucleare iraniano, a cui partecipano i membri del Consiglio di Sicurezza più la Germania.
Se da un lato questo è il riconoscimento di un disequilibrio tra i due paesi, dall’altro è un’occasione per l’Italia, mi ha spiegato un consigliere del governo italiano: «Se il paese comincia a riflettere davvero su quale sia il suo interesse nazionale, e con Draghi il concetto è citato spesso, partecipare a queste riunioni può essere utile». Avere ottenuto questi scambi è una “vittoria” per la Farnesina: i diplomatici italiani criticano da sempre la tendenza francese a organizzare summit internazionali o promuovere posizioni che hanno ricadute negative dirette sugli interessi nazionali senza informare Roma.
Con questo meccanismo, vertici a sorpresa sulla Libia come quello organizzato da Emmanuel Macron a La Celle Saint Cloud nel 2017, vissuto malissimo dalla diplomazia italiana, non dovrebbero accadere più.
Italia e Francia istituiscono, inoltre, un meccanismo di formazione congiunta per i diplomatici, che potranno anche essere accolti dall’altra nazione contraente per dei periodi di scambio. Nel settore della difesa sono previsti «incontri bilaterali istituzionalizzati», la creazione di un Consiglio Italo-Francese di Difesa a cui partecipano i due ministri degli Esteri e della Difesa; per migliorare la gestione dell’immigrazione i ministri dell’Interno e degli Esteri «istituiscono un meccanismo di concertazione rafforzata, con riunioni periodiche su asilo e migrazioni».
Gli incontri bilaterali periodici sono previsti anche per i ministri dell’Interno e i Direttori generali del ministero dell’Interno, in particolare sui temi che riguardano immigrazione e asilo, per i ministri dell’Economia, delle Finanze e dello Sviluppo economico, per i ministri dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e per i ministri della Giustizia.
Infine, è prevista anche una cooperazione rafforzata nell’ambito aerospaziale, un’intesa ambiziosa che è stata anche oggetto di un accordo separato, firmato sempre al Quirinale.
Il Trattato sarà molto utile anche a livello industriale, e su questo concordano diverse fonti sia italiane sia francesi con cui ho parlato. Non prevede programmi bilaterali specifici, ma crea un perimetro che può essere sfruttato soprattutto dalle aziende di proprietà dello Stato, che sono numerose e molto potenti in entrambi i paesi. Su questo aspetto, il ragionamento di Parigi e Roma è simile a quello utilizzato per migliorare i rapporti diplomatici: creare una cornice istituzionale di incontri, di consuetudini e di scambi può aiutare le grandi aziende a lavorare insieme ed evitare fallimenti.
Con questo accordo Macron e Draghi impegnano chi verrà dopo di loro a custodire un rapporto più forte e coeso: «Vogliamo costruire una casa franco-italiana in cui parlarci liberamente. Parlo di noi due e dei nostri successori, ma anche i nostri ministri, intellettuali, i nostri diplomatici, le nostre imprese», ha detto Macron in conferenza stampa.
I due presidenti si conoscono, si stimano, hanno un rapporto personale profondo. Almeno è quello che cercano di far trapelare alla stampa, e che mostrano in pubblico. Alla fine della sua dichiarazione, Emmanuel Macron ha smesso di rivolgersi ai giornalisti e alle telecamere e si è voltato verso Mario Draghi, quasi sussurrando, come a voler rendere la vita difficile al microfono che stentava a raccogliere le sue parole e amplificarle nella sala: «Voglio concludere applicando a noi stessi questa buona formula conosciuta tra Montaigne e La Boétie, che definiscono per noi cosa sia l’amicizia: “Perché era lui, perché ero io”. Questo trattato del Quirinale è un po’ così: “Perché era lui, perché ero io”. Non possiamo che firmarlo, perché tra noi l’amicizia è così evidente da essere diventata indescrivibile, eppure così facendo la rendiamo più esplicita per renderla più forte ancora. Questa è l’amicizia fraterna che ci lega. Grazie per questo, Presidente, e grazie per tutto ciò che ci resta da fare».
Il contesto è importante. Il Trattato è firmato alla fine di un anno particolare per la politica estera: il ritiro dall’Afghanistan dimostra che gli Stati Uniti hanno definitivamente spostato il baricentro verso l’Indo-Pacifico, mentre Russia e Turchia aumentano la propria presenza in Africa e nel Mediterraneo. Il loro attivismo contribuisce a rendere più instabile la frontiera dell’Unione europea, come dimostra la crisi al confine tra Polonia e Bielorussia. Questi cambiamenti, uniti alla fine dell’epoca di Angela Merkel in Germania, spingono Francia e Italia a rinsaldare i propri rapporti.
In queste settimane molti hanno interpretato il Trattato del Quirinale come una risposta al “vuoto” di leadership lasciato da Merkel e allo strapotere tedesco in Europa. È certamente una valida interpretazione, ma forse ha più senso analizzare l’accordo come il segnale di una presa di consapevolezza sul funzionamento dell’Unione europea. In Europa i dossier avanzano per “coalizioni”: gruppi di Stati che hanno interessi comuni si accordano per influenzare il funzionamento delle istituzioni. Italia e Francia non hanno coalizioni naturali, come invece accade per la Germania, che è abituata a muoversi in questo modo ed è aiutata dalla sua influenza economica e culturale verso Stati più piccoli come Austria, Paesi Bassi, Repubblica ceca.
Con il Trattato del Quirinale, Italia e Francia costruiscono la propria sfera d’influenza reciproca, che nel breve periodo implica una posizione comune su un dossier fondamentale per l’economia dei due paesi: le attuali regole di bilancio dell’Unione non sono sostenibili e a nessuno conviene che la Germania torni a imporre una politica economica restrittiva e ostile alla condivisione del debito, come invece avvenuto con il Next Generation Eu.
Consapevoli del pericolo di un’interpretazione troppo antitedesca, sia la Francia che l’Italia hanno affrontato l’argomento, provando a contestualizzare il trattato. L’Eliseo ha detto esplicitamente che «non abbiamo mai voluto creare una sorta di triangolo della gelosia. Per essere trasparenti durante questa settimana, insieme all’Italia, abbiamo condiviso con i nostri partner tedeschi gli elementi del trattato».
Allo stesso tempo, negli ultimi mesi, diverse persone dell’entourage di Draghi mi hanno spiegato che il Presidente del Consiglio italiano intende le relazioni con Parigi e Berlino come trilaterali: si avanza in modo coordinato, non c’è un asse privilegiato a discapito di un altro. È solo che con la Francia «le occasioni di scontro sono maggiori», riassume una fonte diplomatica, e quindi era necessario ridurle. Per l’Italia è una sfida, perché costringe il sistema paese a coordinarsi per essere più efficace nel rapporto bilaterale; per la Francia è un’occasione, perché le consente di avere un alleato importante su dossier che ritiene fondamentali, come la cooperazione nella difesa, citata più volte in conferenza stampa, e l’autonomia strategica europea.
In Italia ci sono state molte polemiche sul segreto mantenuto dalle due delegazioni, capaci di non far filtrare quasi nulla, non soltanto ai giornalisti, ma anche alle rispettive amministrazioni e parlamenti. Forse l’opinione pubblica avrebbe potuto essere coinvolta, quantomeno sugli obiettivi e sulle motivazioni del Trattato, ma il testo è stato modificato più volte, negoziato in modo serrato, e in alcuni punti direttamente dai due leader. Per esempio, nella bozza che ho letto giovedì la partecipazione trimestrale di un ministro al Consiglio dei ministri dell’altra nazione contraente non era inclusa, ed è stata inserita nella notte prima delle firma, su esplicita richiesta di Mario Draghi, che l’ha poi annunciata in conferenza stampa.
Infine, concedetemi una piccola riflessione personale. Devo moltissimo alla relazione tra Francia e Italia: grazie a un accordo bilaterale, ho studiato e poi lavorato tra Roma e Parigi, ho avuto il tempo di conoscere e amare un paese che, appunto, sembra vicino ma in realtà non lo è. Oggi mi rendo conto che un pezzo del mio mondo è francese: gli amici, la cultura, la lingua e anche il lavoro. Ma sono profondamente italiano, l’identità è un tratto insopprimibile: quando scrivo per l’Opinion devo mettermi nei panni di chi legge, che è francese e ha una visione del mondo diversa dalla mia, ed è un esercizio interessante, diverso, e a volte anche faticoso. Perché le nazioni esistono, e le differenze pure. E il Trattato del Quirinale serve in fondo a questo, a contaminarsi.
Una prospettiva molto interessante! Una domanda. Cosa si intende per quel "disprezzo francese" raccontato dai diplomatici italiani? Qualcosa di contestuale, magari legato agli scontri risalenti al governo giallo-verde, o è uno snobismo di fondo? A cosa può essere dovuto, secondo lei? O a cosa ne è dovuta la percezione, se è solo presunto?