La crisi in Afghanistan è una buona notizia per la Francia - Marat n. 7
Il ritiro unilaterale e disordinato degli americani da Kabul rafforza le ambizioni francesi per un’Europa più attiva e autonoma nel mondo. Macron ha anche in mente la nazione che potrebbe guidarla
10 maggio 2021, un centinaio di cittadini afghani atterra a Parigi e viene preso in carico dalle autorità francesi, che hanno preparato tutti i documenti per concedergli l’asilo. Si tratta di persone che hanno collaborato in questi anni con la missione a Kabul, in Afghanistan, e che Parigi intende proteggere. È il primo volo dei quattro previsti nei mesi successivi verso la Francia, che ha disposto procedure semplificate per circa seicento persone, sulla base di un’analisi molto pessimista: le cose possono degenerare da un momento all’altro, meglio tirare fuori più persone possibile prima della presa del potere dei talebani.
Tutta l’operazione è gestita dal ministero degli Esteri, guidato da Jean-Yves Le Drian, che copre i costi del trasferimento e accompagna gli afghani nella complicata procedura per ottenere l’asilo.
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Questa notizia, riportata dal Monde nella sua edizione pomeridiana del 14 maggio, passa relativamente inosservata se non per le reazioni, stizzite, dei partner europei e delle Ong che lavorano in Afghanistan. Gli alleati accusano i francesi di non aver avvertito nessuno, nemmeno le autorità afghane, e le Ong ritengono la scelta un regalo ai talebani, pronti a cogliere segnali dell’abbandono occidentale, peraltro previsto da un accordo tra gli stessi talebani e gli Stati Uniti firmato il 29 febbraio 2020 a Doha. Il 17 luglio parte il quarto e ultimo volo speciale.
Nel weekend di ferragosto la situazione precipita e i francesi, come gli altri Stati occidentali, cercano di salvare più persone possibile grazie all’enorme lavoro compiuto dal personale diplomatico guidato dall’ambasciatore David Martinon, in prima linea all’aeroporto di Kabul.
In un gioco di contraddizioni, la decisione di avviare l’evacuazione dei collaboratori afghani a maggio, senza avvertire né gli alleati né il governo locale, è insieme la forza e la debolezza della politica estera francese e dell’ambizione di Emmanuel Macron. La tendenza a fare da soli, a prendere decisioni comunicandole a cose fatte, si accompagna tuttavia alla necessità di ottenere aiuto dagli alleati, in particolare dagli americani.
A proposito di contraddizioni, ricordo che a inizio 2018, quando Macron era insediato da meno di un anno all’Eliseo e si cominciavano a scoprire i suoi metodi, un membro dell’allora governo italiano mi spiegò che per gli alleati europei era molto faticoso stargli dietro: «Si confronta in primo luogo con gli americani e poi a cose fatte ci comunica cosa intende fare». Era una testimonianza interessante, perché nello stesso periodo il presidente moltiplicava le sue richieste per una maggiore cooperazione europea, per un’agenda comune e persino per una politica estera più allineata.
Macron martella da tempo un concetto: l’autonomia strategica europea, cioè la necessità di creare delle capacità diplomatiche e militari che permettano agli europei di intervenire in modo tempestivo quando gli americani non intendono farlo perché non ritengono coinvolti i propri interessi. Per provare a imporre il tema, Macron ha anche cominciato a mettere in discussione la missione della Nato, giudicata in «morte cerebrale» in un’intervista all’Economist del novembre 2019: una definizione che ha molto irritato i partner europei che invece puntano tutto sull’Alleanza Atlantica per la propria sicurezza, in particolare la Polonia, gli Stati baltici, ma anche la Germania.
Secondo Gilles Gressani, presidente del Groupe d’études géopolitiques di Parigi, le immagini di Kabul contengono un sottotesto: la posizione francese sull’autonomia strategica europea è rafforzata dai fatti, ogni nuova crisi internazionale riporta le parole di Macron al centro del dibattito continentale, e stavolta l’emozione suscitata dal ritiro potrebbe accelerare un processo che tutti dicono di condividere a parole: «Gli ultimi anni ci dicono una cosa chiara, e in questo il ritiro da Kabul non costituisce una novità: intorno all’Europa si moltiplicano le crisi, dal Marocco alla Tunisia, dalla Siria al Libano, dall’Afghanistan alla Bielorussia, senza contare le tensioni per il controllo delle rotte artiche. Sono dossier secondari per gli Stati Uniti, chi dovrebbe occuparsene se non gli europei?».
Eppure la Francia sconta un problema di popolarità tra gli Stati membri, pur proponendo una lettura condivisibile di come sono cambiati gli equilibri internazionali: «Per gli altri europei la diagnosi è giusta ma il medico è sbagliato – continua Gressani – con l’aggravante che il medico è l’unico paese, nell’Europa continentale, in grado di sostenere un intervento militare offensivo in un paese straniero, è il solo ad avere la deterrenza atomica e ad avere interessi strategici in tutti i continenti. Anche per questo, pur essendo tutti d’accordo nell’analisi, i passi avanti sono pochi: c’è la questione della leadership francese che intimorisce».
Un’Europa più autonoma a guida francese non sarà la massima aspirazione degli Stati membri, che però sono rimasti molto scottati dal ritiro unilaterale americano dall’Afghanistan.
Benjamin Haddad, direttore del programma Europe Center del think tank americano Atlantic Council, sottolinea come la reazione tedesca e britannica possa avere conseguenze positive per cominciare a discutere concretamente di questi temi: «Kabul è un trauma vero per Londra e Berlino. Gli americani hanno sottovalutato il loro investimento in termini di uomini, energie, risorse finanziarie e capitale politico interno. Non solo, per Germania e Regno Unito partecipare alla missione in Afghanistan era un mezzo per sottolineare la loro coerenza e la loro partecipazione al campo Atlantico, la risposta degli Stati Uniti è stata un ritiro unilaterale e delle operazioni frettolose e senza coordinamento con gli alleati. È un fatto che lascerà delle tracce profonde e anche perché arriva dopo la presidenza Trump, che molti avevano percepito come un incidente della storia di cui preoccuparsi relativamente. Non è così: gli Stati Uniti non sono diventati isolazionisti, ma hanno cambiato le loro priorità che non sempre coincidono con quelle europee».
Gavin Barwell è stato Chief of Staff della prima ministra britannica Theresa May dal 2017 al 2019. Quello che scrive è interessante e significativo
Per Parigi questo trauma è una notizia paradossalmente positiva, perché avvicina i tedeschi alla posizione francese. Non solo: una fonte diplomatica francese mi ha spiegato che le divergenze tra chi vuole maggiore autonomia in politica estera e chi no cominciano a ricalcare quelle sulla politica economica.
È uno spunto che ci aiuta a capire quanto sia complicato riuscire a mettere tutti d’accordo, e quanto argomenti che ci appaiono consensuali in teoria (reagire insieme alle decisioni americane che vanno contro gli interessi europei, chi può essere in disaccordo?) non lo siano in pratica: «La questione dell’autonomia strategica europea – dice la fonte – è dibattuta da tempo, e l’idea della Francia non è un segreto. Sappiamo bene che è un tema divisivo, ma ci sembra che divida sempre meno i paesi più importanti: Italia, Francia, Germania e Spagna sono piuttosto allineate, il problema si pone con i paesi dell’est e con i baltici, restii a investire su questo concetto. C’è una faglia in Europa, bisogna riconoscerlo, non soltanto sulle questioni militari e diplomatiche, ma anche su quelle economiche. Ciò che è accaduto in Afghanistan non cambia i termini di un dibattito che è già in corso, ma forse, e noi lo speriamo, accelera un processo concreto: la coordinazione europea in caso di crisi».
La faglia di cui mi ha parlato questa fonte diplomatica, insieme all’osservazione di Haddad sulla nuova consapevolezza tedesca, aiuta ad aggiungere un ulteriore elemento all’equazione già complessa. L’Eliseo è piuttosto interessato a quello che accadrà alle elezioni tedesche di fine settembre, per due motivi: il primo è che i francesi non vogliono che la Germania ritorni ad essere la guardiana dell’austerità dei conti pubblici; il secondo è legato alla presidenza di turno dell’Unione europea nel primo semestre 2022, che spetta alla Francia. È un momento importante, perché serve a Macron per dimostrare in campagna elettorale che il suo mandato ha fatto progredire i processi in Europa. Non vuole quindi che una transizione di potere eccessivamente lunga in Germania “rovini” il suo momento.
Dopo Kabul, questo rischio, elezioni chiare permettendo, è minore. Secondo molti retroscena pubblicati dalla stampa americana, francese e tedesca, Berlino ha provato in tutti i modi a convincere gli Stati Uniti a restare più a lungo in Afghanistan, senza riuscirvi. D’altronde, la frustrazione è trapelata anche in pubblico, per Armin Laschet, membro della Cdu, il partito di Angela Merkel, e probabile suo successore, in Afghanistan abbiamo assistito alla «più grande débâcle per la Nato dalla sua creazione».
Inoltre, le voci per un maggiore coinvolgimento tedesco nel mondo continuano a moltiplicarsi. Christoph Heusgen, ex rappresentante permanente della Germania alle Nazioni unite e soprattutto ex consigliere per la politica estera e di sicurezza di Angela Merkel, ha esposto in modo chiaro quale dovrebbe essere la posizione tedesca in un articolo pubblicato dallo European Council on Foreign Relations: «La Germania deve continuare ad assumersi la responsabilità di partecipare alla gestione e alla risoluzione delle crisi internazionali. Se non lo facciamo noi, chi altro lo farà? Gli interessi tedeschi ci chiedono di continuare a impegnarci all’estero, in gioco ci sono il futuro di milioni di posti di lavoro e dell’economia tedesca, che è dipendente dal commercio e dai mercati aperti. Dobbiamo proteggere i diritti umani, prevenire flussi massivi di rifugiati e migranti, contribuendo a risolvere conflitti e irrobustendo i paesi che ne hanno bisogno».
Macron questo weekend ha partecipato a una conferenza internazionale sul futuro del medio oriente in Iraq, unico leader occidentale invitato, a dimostrazione di quanto la Francia stia cercando anche in queste ore di occupare, per quanto possibile, il vuoto lasciato da Washington
Parigi non è stata sorpresa dalla scelta americana, come dimostra l’evacuazione anticipata a maggio e anche le dichiarazioni di queste ore. Il ministro degli Affari europei Clément Beaune ha detto venerdì mattina che i francesi continueranno a evacuare fino a quando sarà possibile, e che in ogni caso l’ambasciata non verrà chiusa (anche se l’ambasciatore al momento è rientrato in Francia).
Secondo Benjamin Haddad, il trauma Parigi lo ha già subito anni fa. A partire dal 27 agosto 2013, dopo aver avuto le prove dell'utilizzo di armi chimiche nel bombardamento di Goutha, alla periferia di Damasco, in Siria, la marina e l’aeronautica francesi sono pronte a intervenire per sanzionare il regime di Bashar al Assad. La sera del 31 agosto però, il presidente americano Barack Obama fa marcia indietro, lasciando Parigi da sola. L’operazione è annullata, ed è un’umiliazione. «Questo episodio - dice Haddad - insieme al ritiro unilaterale di Trump dal nord est siriano nel 2018, ha fatto capire a Parigi che una fase era finita. Ma non è stata una vera e propria sorpresa: la diplomazia francese dal dopoguerra si fonda sull’ipotesi Trump negli Stati Uniti, da qui la ricerca di autonomia, anche intellettuale, che ha portato per esempio a cominciare l’evacuazione a maggio».
Un esempio di cooperazione europea che può essere preso come modello è l’intervento nel Sahel. I francesi sono intervenuti nella zona che va dal Sahara all’Africa centrale per evitare che questo spazio diventasse un rifugio per i jihadisti, schierando con l’operazione Barkhane più di 5000 uomini (diventeranno 2500 nel 2022), con il supporto logistico americano, che schiera droni e forze speciali, e con l’aiuto degli alleati europei, inquadrati nella missione europea a guida francese Takuba.
Sul terreno ci sono 600 soldati forniti da Italia, Estonia, Svezia, Danimarca, Repubblica Ceca e Romania, coadiuvati da ufficiali di collegamento portoghesi, belgi, olandesi, e norvegesi. Avrete notato l’assenza: i tedeschi non partecipano attivamente. È un limite che racconta quanto sia difficile trasformare in azioni concrete i proclami che chiedono più autonomia e cooperazione europea. Secondo Haddad, in queste discussioni va aggiunto il Regno Unito: «È impossibile pensare a un’Europa della difesa senza Londra, è un paese troppo importante. Il semestre europeo a guida francese potrebbe essere un’occasione per superare le tensioni scaturite dalla Brexit e immaginare un nuovo rapporto partendo proprio dalla sicurezza».
Infine, la posizione italiana. In questi mesi Mario Draghi ha dedicato relativamente poco tempo alla politica estera; il suo mandato è chiaro: portare il paese fuori dalla pandemia grazie alle vaccinazioni, mettere in sicurezza l’economia spendendo bene i fondi che l’Unione europea verserà all’Italia. Tuttavia, esiste un principio di metodo che il presidente del Consiglio sta portando avanti, mi hanno spiegato diverse persone che lavorano con lui: cercare in tutti i modi di rafforzare la cooperazione con Francia e Germania.
L’idea di Draghi è costituire un nucleo di paesi che riescano a portare avanti concretamente delle azioni per diventare più rilevanti sulla scena internazionale ed evitare di essere presi in contropiede dalle crisi. Il successo di questa triangolazione (Limes ha dedicato il suo numero di aprile alla questione, ve lo consiglio), passa anche da un rapporto più strutturato con la Francia. Il trattato del Quirinale, che dovrebbe regolarlo, è praticamente scritto, Roma e Parigi stanno negoziando ancora su aspetti marginali del testo. La firma è prevista per la fine dell’anno.
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Consigli di lettura e fonti
L’articolo del Monde del 14 maggio 2021 che riporta la scelta di cominciare l’evacuazione da Kabul, quello del Figaro che racconta l’ultimo volo speciale parte di questa operazione, a luglio. Piotr Smolar, corrispondente del Monde dagli Stati Uniti ed ex corrispondente diplomatico del quotidiano ha scritto un lungo articolo sulle reazioni degli alleati di fronte al ritiro americano. Anche il New York Times si occupa dello stupore europeo.
I rapporti difficili tra Francia e Germania in materia di difesa, analizzati da Jean-Dominique Merchet de l’Opinion, come funziona l’embrione di una forza militare europea nel Sahel (dal Monde) e la difficile relazione tra Francia e Regno Unito dopo Brexit raccontata da Rym Momtaz, corrispondente da Parigi.
Qui potete leggere l’editoriale di Christoph Heusgen sulla necessità di un maggiore impegno tedesco, mentre sul New Statesman trovate un’analisi sul “momento francese” scritta dal giornalista Jeremy Cliffe.
In un numero breve di Marat avevo già scritto del rapporto tra Francia e Italia, per Linkiesta mi ero occupato delle divergenze (meno profonde di quanto appaiono) tra Francia e Germania sull’autonomia strategica europea, infine sul Foglio avevo raccontato il trauma francese in Siria.