La sentenza del processo del secolo - Marat n. 51
Tutti gli imputati per gli attentati del 13 novembre 2015 sono stati condannati, dopo 148 giorni di udienza. Salah Abdeslam, il solo membro del commando rimasto vivo, è stato condannato all’ergastolo
Dopo 148 giorni di dibattimento, è servita soltanto un’ora a Jean-Louis Périès, presidente della Corte d’Assise speciale, per leggere la sentenza che chiude il processo del secolo in Francia, il processo sugli attentati del 13 novembre 2015. Circa tre minuti per ognuno dei 20 imputati, tutti riconosciuti colpevoli di aver partecipato all’organizzazione delle stragi dello Stade de France, dei ristoranti del decimo arrondissement e infine del Bataclan. Tranne uno, Farid Kharkhach, che secondo la sentenza ha sì fornito dei documenti falsi alla cellula terroristica, ma non poteva sapere dell’organizzazione di un attentato.
Gli altri imputati, di cui soltanto in 13 presenti alle udienze, mentre gli altri 6 sono stati giudicati in contumacia, sono stati invece ritenuti colpevoli di tutti i capi di imputazione presentati dalla procura. Le pene sono state «all’altezza dei loro crimini», ha scritto il settimanale l’Obs, e vanno dai quattro anni all’ergastolo, pronunciato per 2 imputati.
Il processo, cominciato a settembre 2021, ha avuto una copertura mediatica inferiore rispetto alle attese, anche a causa della guerra in Ucraina e grazie al fatto che la stagione dei grandi attacchi terroristici sembra, per fortuna, scemata. Durante la campagna elettorale delle presidenziali, che si è svolta in contemporanea con i momenti più importanti del processo, i temi della sicurezza e del terrorismo non sono stati quasi mai evocati, rendendo ancor meno centrali le udienze nell’aula allestita al palazzo di giustizia dell’Île de la Cité.
Tuttavia per le vittime sopravvissute e per i parenti di chi è stato ucciso in quella terribile notte è stato un momento importante per chiudere una pagina dolorosa. La sociologa quarantenne Camille Gardesse, sopravvissuta all’assalto al ristorante La Belle Equipe, ha scritto per il Monde che è andata più volte al processo non soltanto per testimoniare, ma anche per «comprendere, confrontandomi con gli elementi fattuali dell’inchiesta: come hanno potuto degli esseri umani partecipare a un tale massacro? Come ci siamo arrivati, come società? Il confronto con le contestazioni fatte dalla procura agli imputati, ma anche i racconti degli altri sopravvissuti, mi hanno aiutato a “fissare” l’evento, a contenerlo, a realizzarlo, inquadrandolo sotto diverse prospettive che mi erano rimaste opache. Il resoconto minuzioso dei preparativi e della logistica, per quanto agghiaccianti, mi hanno permesso di inserire la mia esperienza in una dimensione temporale e spaziale più larga, e di ancorarla alla realtà».
In molti hanno elogiato l’organizzazione del processo, una macchina enorme e senza precedenti si è messa in moto per garantire a tutti (imputati, parti civili, giudici, stampa, avvocati) le condizioni migliori possibili. Secondo Marie-Claude Desjeux, presidente della Federazione nazionale delle vittime degli attentati e degli incidenti collettivi, «l’organizzazione è stata la più grande riuscita di questo processo». Non era scontato riuscire a tenere insieme gli interessi e le aspettative dei 14 accusati presenti, di 330 avvocati, 2400 parti civili, 141 media accreditati in delle sale che potevano accogliere contemporaneamente quasi duemila persone. Il fatto che, nonostante la pandemia, la tensione e la pressione di una parte dell’opinione pubblica, tutto sia filato liscio, e che le condanne siano state dure ma giuste, è probabilmente la migliore risposta che una democrazia possa dare a chi prova a metterla in discussione, come i terroristi. I 542 tomi che raccolgono gli oltre 47mila verbali utilizzati per arrivare alla sentenza, dimostrano il lavoro certosino della magistratura francese.
Salah Abdeslam, unico sopravvissuto del commando del 13 novembre (gli altri imputati erano parte della cellula, ma non hanno partecipato in prima persona agli attacchi), è stato condannato alla perpétuité incompressible, il nostro ergastolo ostativo: dovrà passare il resto dei suoi giorni in carcere senza possibilità di riduzione della pena. In altre parole, i giudici non hanno ritenuto possibile il suo reinserimento in società. Il suo profilo è quello che ha suscitato maggiore interesse, per ovvie ragioni: non soltanto era il solo terrorista in vita, ma aveva finora tenuto un comportamento poco collaborativo. Dal 16 marzo 2016, data del suo arresto a Mollenbeck, in Belgio, dopo 125 giorni di latitanza, fino all’inizio del processo, Abdeslam aveva rifiutato di rispondere alle domande dei magistrati o di parlare con uno psicologo. La sua linea di difesa, dunque, è stata una delle grandi questioni durante il dibattimento. Nei primi mesi di udienze, il terrorista ha deciso di sfruttare l’occasione mediatica offertagli dal processo: ha interrotto più volte il presidente della Corte, ha rivendicato la sua appartenenza allo Stato islamico, ha provato a farsi portavoce della comunità jihadista. Ma in realtà il suo tentativo è velocemente apparso inutile, tanto che, nei tre giorni della sua testimonianza, il 13, 14 e 15 aprile, ha completamente cambiato atteggiamento. Finalmente disposto a parlare e a rispondere a qualche domanda, Abdeslam ha dato la propria versione dei fatti, e cioè di non aver saputo nulla del progetto di attentato fino a due giorni prima, e di aver poi deciso di non azionare la sua cintura esplosiva, come previsto, colto da un «sussulto di umanità». Insomma, Abdeslam ha chiesto alla Corte di non considerarlo come un assassino, ma i giudici hanno deciso di non dare credito alla sua spiegazione.
«Il processo in sé ha una funzione di riparazione, di riconoscimento del nostro stato di vittime. Per alcuni di noi, anche la sanzione fa parte della riparazione, e in questo senso il verdetto è soddisfacente. Abbiamo ascoltato le evoluzioni di Salah Abdeslam e l’umanità che ha espresso, ma in nessun momento mi sono lasciato affascinare da queste false verità. Nemmeno la Corte si è lasciata convincere», ha riassunto Philippe Dupeyron, presidente dell’associazione 13Onze15.
Del processo non esistono vere e proprie immagini: in Francia è vietato registrare con mezzi audiovisivi le udienze, anche se è possibile chiedere una deroga per processi di interesse storico introdotta nel 1985, che è stata ottenuta anche in questo caso. Tuttavia, le immagini potranno essere accessibili tra cinquant’anni, e soltanto per fini di ricerca. In aula era presente una decina di disegnatori che, per i giornali e le televisioni hanno provato a restituire l’atmosfera del dibattimento. Corentin Rouge, che ha seguito il processo per Charlie Hebdo, ha spiegato al Monde quanto fosse difficile stavolta il suo lavoro, in particolare durante le testimonianze delle parti civili: «Ho sentito una forma di responsabilità da tradurre nell’onestà del disegno, quando le vittime sono venute alla sbarra. Doveva essere all’altezza della sincerità delle loro parole».
Consigli di lettura e fonti
I disegnatori raccontano la loro esperienza al Monde; il profilo psicologico di Salah Abdeslam, raccontato dallo scrittore Emmanuel Carrère, che ha tenuto una cronaca settimanale per l’Obs; l’analisi del Figaro, che spiega il ragionamento giuridico della corte che ha portato alle condanne.
Qui tutte le condanne in dettaglio. Le Point raccoglie i dubbi degli avvocati di Abdeslam, che giudicano la pena troppo severa; l’Obs racconta la strana serata di Farid Kharkhach, giudicato non colpevole di aver partecipato all’organizzazione degli attentati, ma condannato per altri reati collegati, liberato e poi immediatamente ri-arrestato.