Il processo del secolo - Marat n. 9
Nei prossimi nove mesi, nella Sala dei passi perduti del tribunale di Parigi, saranno giudicati Salah Abdeslam e i suoi complici, responsabili degli attentati del 13 novembre
Di quel giorno ricordo il clima dolce, di rara clemenza per una serata di metà novembre, i tavolini esterni del Petit Cambodge e del Carillon pieni come fosse un venerdì di fine estate. Lascio il mio Velib, il servizio di bike sharing del comune di Parigi, a pochi passi dai due bar, ci passo davanti e svolto a sinistra: devo andare a cena a 50 metri da lì.
Vengo dall’università, dove ho appena dato un esame, e sto raggiungendo mio fratello Corrado a casa di Andrea, nostro zio che vive a Parigi da trent’anni. L’orologio tondo sul palo segna le 21 passate, sono in ritardo: siamo napoletani, si cena tardi ma fino a un certo punto. Appena seduti, alle 21.25, sentiamo una raffica di colpi di arma da fuoco.
Il primo pensiero, sintetizzato ad alta voce da qualcuno a tavola, è: «Sarà un regolamento di conti». Poi sentiamo un’altra raffica. E un’altra ancora. Passano trenta secondi, siamo tutti in silenzio, terrorizzati, come se la prossima raffica potesse colpire anche noi che siamo al sicuro al quarto piano. Ricordo la sensazione di confusione e di paura, e i volti tesi di chi mi sta di fronte. La domanda implicita, che tutti ci stiamo ponendo ma non abbiamo il coraggio di pronunciare, è: «Che facciamo?».
Poi, di colpo, un’accelerazione improvvisa: si sentono le urla di chi si trova per strada, e i colpi al portone di persone disperate: «Fateci entrare, fateci entrare». In breve tempo dalla nostra finestra iniziamo a vedere il fumo, a sentire l’odore della cordite e le sirene della polizia in lontananza. Rita, mia zia, si alza, piano, come se avesse paura di saperne di più, e accende la televisione. «Esplosioni allo Stade de France», titola il telegiornale.
Di quello accaduto sotto casa nessuna notizia, è ancora troppo presto, i fatti sono ancora in svolgimento. Ma noi capiamo subito: c’è stato un attentato. Mio zio si gira verso me e mio fratello, a disagio: «Non fatevi venire strane idee, non si esce, stasera dormite qua». Poco dopo, la polizia arriva sul posto, e con l’altoparlante avverte i residenti che abitano intorno all’Hopital Saint Louis, attorno al Carillon e al Petit Cambodge: «Vi preghiamo di restare in casa, c’è un attentato in corso, uscire è ancora pericoloso». In quel momento, minuto più, minuto meno, comincia la strage al Bataclan.
In televisione compare il presidente, François Hollande: «Miei cari compatrioti, mentre parlo, nell’area di Parigi sono in corso attacchi terroristici di una portata senza precedenti. Ci sono diverse decine di morti e molti feriti, è un orrore. [...] Verranno prese due decisioni. Verrà dichiarato lo stato di emergenza, il che significa che alcuni luoghi saranno chiusi, il traffico potrà essere interdetto e ci saranno anche perquisizioni che potranno essere decise in tutta l’Île-de-France. La seconda decisione che ho preso è stata quella di chiudere le frontiere».
Mercoledì in Francia è iniziato il processo del secolo. Si giudicano i terroristi che hanno perpetrato le stragi del Bataclan, dello Stade de France, del decimo e undicesimo arrondissement. O meglio, i venti complici di quella notte maledetta, perché soltanto uno è sopravvissuto e sarà presente alle udienze. Salah Abdeslam, finora trincerato dietro un silenzio che sa anche di sfida: «non riconosco la vostra giustizia», ha dichiarato durante il secondo giorno di udienza, interrompendo più volte il presidente e gli avvocati delle parti civili, impegnati a dirimere questioni procedurali.
Una macchina enorme, 140 giorni di udienza divisi in nove mesi, quattro anni e mezzo di istruzione riuniti in 542 tomi che raggruppano circa 47mila verbali, interrogatori, perizie, testimonianze, 330 avvocati, 141 media di tutto il mondo accreditati. A questi si aggiungono le 1800 parti civili costituite nei mesi di preparazione del processo (familiari delle vittime, vittime stesse, persone giuridiche come la società che possiede il Bataclan e il comune di Parigi), raggiunte da più di 300 che hanno aspettato i primi tre giorni di udienza per chiedere di essere ascoltate e ammesse nel dibattimento.
Questa che vedete è la «Sala dei passi perduti», l’enorme piano terra del palazzo di giustizia di Parigi all’Île de la Cité, di fronte a Notre Dame, che è normalmente il luogo dove tutti passano per arrivare alle udienze. Non è quindi un’aula di Tribunale, ma è stata resa tale per accogliere il processo.
Questa scelta ha una sua forza, che ha spiegato Denis Salas, magistrato, in un’intervista al Monde: «Il luogo è essenziale. Il penale è una contro-violenza che reagisce alla violenza sociale o politica. Al fracasso delle armi, si oppone uno spazio di parola che separa radicalmente l’atto di giudicare dall’atto di guerra. L’architettura del processo è fatta per contenere e metabolizzare i conflitti. La “Sala dei passi perduti” è il simbolo di questa contro-violenza proporzionata e misurata: è la garanzia che la parola conterrà gli scoppi di violenza che attraverseranno la stanza. È sia il luogo che il palcoscenico per la nostra risposta alla sfida che ci lancia il terrorismo. È uno spazio appositamente costruito e pensato affinché tutte le voci possano essere espresse. È con questo spirito che noi, Paese democratico, vogliamo rispondere alla barbara violenza che ci ha assalito».
Non sarà facile.
«Cognome, nome, data e luogo di nascita» chiede Jean-Louis Périès, il presidente della Corte d’assise composta appositamente per il processo, a tutti gli imputati. Arriva il turno di Salah Abdeslam, principale imputato del processo. Il quale fa capire subito come utilizzerà il palcoscenico a sua disposizione. «Prima di tutto», risponde, «voglio testimoniare che non c'è altro Dio all’infuori di Allah e che Maometto è il suo servitore e il suo messaggero». Brusio nella sala, subito interrotto dal presidente. «Sì, questo lo vedremo dopo».
«Professione?», chiede il presidente. «Ho rinunciato a qualsiasi professione per diventare un combattente dello Stato Islamico». Il presidente non alza gli occhi dai verbali che ha davanti a sé. «Io leggo “lavoratore a chiamata per un’agenzia interinale” come professione», legge con calma Jean-Louis Périès, suscitando qualche sorriso sollevato tra i presenti.
La guerra di nervi tra il presidente e Abdeslam continua. Mentre si alternano le parti civili che intendono costituirsi, procedura lunga e tecnica, Abdeslam interviene senza essere interrogato: «Le vittime siriane avranno diritto di parola? La saggezza impone che un uomo sia condannato dopo un giudizio, non prima. Siamo presunti innocenti. E comunque non riconosco la vostra giustizia». Périès lo interrompe. Abdeslam continua a parlare: «Presidente non sia egoista, mi ascolti! A Molenbeek [quartiere belga dove Abdeslam è cresciuto, ndr] ci sono state altre vittime. E nel quartiere c’è molta generosità, ci sono persone come Mohammed Amri, Hamza Attou, Ali Oulkadi».
Sono i suoi complici, alla sbarra a pochi passi da dove si trova. «Mi hanno fatto dei favori ma non sapevano cosa stessi facendo. E per questo sono in carcere da sei anni», stavolta Abdeslam grida. Ma il presidente lo interrompe. «Signor Abdeslam, questo lo vedremo dopo! Lei ha avuto cinque anni per spiegarsi, e ha invece deciso di non dare dichiarazioni ai magistrati dell’indagine. Era suo diritto, non l’ha esercitato, adesso non è il momento, stiamo facendo un dibattito tecnico».
Non mi dilungo oltre con questo breve verbale dei primi giorni di udienza. Ma era importante fissare bene in mente questo scambio per capire cos’è in gioco in questo processo gigantesco. In primo luogo, per anni ci si è chiesti per quale motivo Abdeslam abbia preferito la fuga al martirio. La sua cintura esplosiva era difettosa oppure, arrivato fino in fondo, non ha avuto il coraggio di immolarsi? La sua scelta di non parlare durante le indagini, di non collaborare, è dovuta alla vergogna?
Mi sembra che la risposta a queste domande possiamo darla: Abdeslam, con il suo comportamento in aula, rivendica la sua appartenenza a un’organizzazione e al suo progetto di morte e violenza. Anzi, intende utilizzarlo per mandare messaggi alla comunità jihadista, per farsi portavoce del “suo” mondo. Così, la posta in gioco, nell’aula allestita all’Île de la Cité, è evitare che il processo diventi una vetrina per un criminale che vuole essere trattato come una star. Il rischio esiste: i primi giorni Salah Abdeslam ha monopolizzato l’attenzione su se stesso, e più ancora sulle sue parole.
La giornalista Cindy Hubert si chiede proprio questo: «come raccontare l’udienza e non offrire un palcoscenico a Salah Abdeslam che sta mettendo insieme una provocazione dopo l’altra? I media hanno una vera responsabilità, mi sembra. Tocca a noi trovare un modo per raccontare questi nove mesi di udienza».
Il processo, invece, serve per rispondere a due necessità, oltre naturalmente a stabilire la colpevolezza o l’innocenza degli imputati, ma questo va da sé. La prima, è ricostruire quanto è accaduto in quella notte e nei mesi precedenti, capire come sia stato possibile che tre commando dello Stato islamico abbiano ucciso 131 persone nel centro di una delle principali città occidentali.
Centinaia di testimoni si alterneranno in questi nove mesi, tra cui l’ex presidente della Repubblica François Hollande, l’ex primo ministro Manuel Valls, l’ex ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve e gli ex direttori dei due servizi segreti, la DGSI (i servizi segreti che hanno giurisdizione per gli affari interni), e la DGSE (i servizi segreti che conducono operazioni all’estero).
Sappiamo molto del contenuto delle indagini, in questi sei anni i magistrati hanno parlato più volte alla stampa, e moltissimi giornalisti hanno pubblicato libri, inchieste, documentari sul tema. Difficilmente ci saranno rivelazioni inaspettate, ma è utile fissare una verità giudiziaria di quella notte.
La seconda necessità è mostrare che la Francia ha risposto con la forza del diritto alla barbarie omicida dei terroristi: per quanto la legislazione penale sia stata molto inasprita in questi anni, tanto da rendere permanenti alcune disposizioni dello Stato d’emergenza, non abbiamo assistito a una reazione esasperata e fuori dai parametri di una repubblica. Insomma, non è stata costruita una Guantánamo francese né una legislazione speciale che tratta gli imputati come “nemici”. Sono criminali, e saranno giudicati secondo le leggi vigenti davanti alle quali tutti siamo uguali.
Consigli di lettura e fonti
Una lunghissima intervista a François Molins, ex procuratore capo di Parigi, la “voce” che ascoltavano i francesi dopo ogni attentato. Molins racconta a Mediapart quella notte e le settimane successive.
L’intervista di Denis Salas, magistrato, citata all’inizio di questo numero.
Lo scrittore Emmanuel Carrère seguirà per l’Obs tutto il processo. Qui trovate la pagina dove pubblicherà i suoi resoconti.
Un ritratto di Jean-Louis Périès, presidente della Corte d’Assise, al suo ultimo e più importante processo. Su France Info.
Tutti i numeri del processo, sul Figaro. Sull’Obs, invece, trovate un informatissimo articolo su come è stata costruita l’aula per ospitare le udienze, anch’essa protagonista dei prossimi nove mesi.
Un podcast prodotto da France Inter che ricostruisce l’attentato e come siamo arrivati al processo. Dieci episodi di circa 30 minuti, se capite il francese lo consiglio.
Les espions de la terreur, un libro del giornalista di Mediapart Matthieu Suc, che racconta i servizi segreti dello Stato islamico che hanno organizzato gli attentati.
La cosa più forte che ho visto, forse, è questo documentario disponibile su Netflix. Fluctuat nec mergitur è il motto di Parigi, ed è anche il titolo della serie che racconta il 13 novembre dal punto di vista dei sopravvissuti.