Macron e Bonaparte - Marat n. 6
Cosa racconta la cerimonia per uno dei generali dell’imperatore, riportato in Francia grazie all’alleanza tra un uomo vicino all’estrema destra e l’Eliseo
Il 13 luglio 2021 un Airbus A320 atterra a Le Bourget, alle porte di Parigi. Riporta in Francia la salma di un soldato caduto per la patria. La scena non è usuale, la bandiera che copre il feretro ha i nomi delle sue principali battaglie, il picchetto d’onore è tenuto da militari in divisa blu, come quella dei soldati dell’imperatore. Questo perché la piccola delegazione che dà il bentornato alla bara non attende un soldato qualunque, ma il generale Charles-Étienne Gudin de la Sablonnière, caduto a Smolensk, durante la campagna di Russia, il 22 agosto 1812.
La cerimonia racconta quanto, ancora oggi, il mito di Napoleone Bonaparte continui a influenzare politica e società francesi. In che modo si è arrivati alla cerimonia racconta invece molto di come funziona l’Eliseo, una sorta di corte che gira intorno al monarca repubblicano pro tempore.
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Il grande regista dell’operazione si chiama Pierre Malinowski, ha 33 anni, ed è uno dei tanti francesi legati sia all’estrema destra che al Cremlino. Appassionatissimo di Russia, si arruola nella legione straniera a 19 anni e passa otto anni nell’esercito ma, seriamente ferito durante un’esercitazione, torna in Francia e si mantiene con lavori precari e incostanti. Nel 2014, la svolta: diventa assistente di Jean-Marie Le Pen, il padre di Marine, appena eletto parlamentare europeo.
Si iscrive anche all’allora Front national, ma soltanto per due mesi. Grazie a questo lavoro gli si aprono delle porte: conosce Alexander Orlov, ambasciatore russo a Parigi, e Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino. Negli anni, incontra anche Vladimir Putin, di cui si fa cicerone durante la visita presidenziale in Francia nel maggio 2017.
Dall’arrivo al potere di Macron, Malinowski comincia a frequentare l’Eliseo anche grazie all’amicizia con Geoffrey Lejeune, direttore di Valeurs actuelles, settimanale di estrema destra vicino a Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen, che si è fatto notare negli ultimi mesi per aver ospitato la lettera dei generali in pensione che minacciavano l’insurrezione.
Lejeune, che ha ottenuto nel 2019 una lunga intervista da Macron sui temi di immigrazione e islam, ha un rapporto disteso con l’Eliseo, che considera il suo giornale un buon mezzo per parlare all’universo che gravita intorno all’estrema destra e con cui il presidente è spesso in difficoltà.
La presidenza della Repubblica francese conserva, volutamente, uno storico carattere monarchico: non può stupire dunque che esistano questi fenomeni di “corte”, in cui frequentatori più o meno assidui sussurrano all’orecchio del principe, parlano con i suoi consiglieri, raccontano questo o quel pettegolezzo, si convincono di avere una certa influenza sul potere.
A volte ce l’hanno davvero.
Il Monde, incuriosito dell’attenzione ricevuta dal personaggio, ha pubblicato un lungo ritratto di Malinowski, in cui si racconta che punta l’Eliseo con un obiettivo preciso: organizzare una spedizione per ritrovare il corpo di Charles-Étienne Gudin de la Sablonnière e riportarlo in Francia. Bruno Roger-Petit, consigliere di Macron, rimane affascinato dalla storia di Malinowski, conscio dell’importanza simbolica che Bonaparte riveste per il presidente, e dà il via libera alla ricerca, che va in porto e si conclude con il ritorno in patria della salma, il 13 luglio 2021.
O meglio, quasi: l’idea, non confermata e su cui l’Eliseo ha spiegato a molti giornali francesi di stare «riflettendo», è di ospitare il presidente russo il 2 dicembre di quest’anno e in una grande cerimonia in pompa magna seppellire il corpo del generale all’Hôtel des Invalides, a pochi metri dalla tomba di Napoleone. Anche qui, la data non è casuale, perché si tratta di commemorare anche la grande vittoria di Austerlitz, nel 1805.
Ma perché questo interesse così profondo per un generale completamente sconosciuto al grande pubblico? Perché per Macron l’eredità napoleonica è così importante?
Il 5 maggio 2021, il presidente francese è all’Hôtel des Invalides. La data è conosciuta da tutti: i duecento anni dalla morte dell’imperatore. La scelta di tenere un discorso per omaggiare Bonaparte, figura controversa e assolutamente non consensuale, è inedita, o quasi. Tra i presidenti della Quinta Repubblica, soltanto Georges Pompidou nel 1969 aveva tenuto un discorso solenne su Napoleone e la sua influenza nella storia francese.
«Napoleone è parte di noi», Macron parla dell’influsso che l’avventura del piccolo corso ha sulla traiettoria della Francia, e anche un po’ sulla propria, segnata dallo spirito di conquista, dall’idea che il paese avesse bisogno di una storia di successo in cui credere per ritrovare il proprio ruolo di potenza mondiale. Omaggia Bonaparte, e in alcuni tratti parla di sé.
La tentazione di cercare paragoni storici tra oggi e il passato è da sempre molto forte, soprattutto in Francia, attentissima a tenere viva la pedagogia nazionale, imperniata sui valori universali (e quindi senza tempo). Nel caso di Emmanuel Macron è incoraggiata dall’attitudine e dall’attenzione alla simbologia: ogni sua uscita pubblica è pensata con cura per restaurare la dimensione monarchica del Capo dello Stato, ogni dichiarazione preparata per iscrivere le azioni del presidente in un disegno storico più ampio.
In questi anni molti giornalisti e intellettuali hanno comparato il presidente a Bonaparte. La comparazione storica è un esercizio interessante, e se vi diverte e capite il francese consiglio di leggere il libro “Macron Bonaparte” di Jean-Dominique Merchet. Ma come potete immaginare questo tipo di esercizi ha il suo limite, e forse testimonia la grande passione dei francesi per la loro storia.
Ciò che è certo, è che Bonaparte ha ancora oggi un ruolo nel definire alcuni tratti fondamentali della politica francese. Per capire meglio l’argomento ho fatto una chiacchierata con Arthur Chevallier, che è uno dei protagonisti di questo “anno bonapartista”; ha scritto un libro su Bonaparte e il bonapartismo (edito da Puf nella sua collezione «Que sais-je ?»), ed è uno dei commissari che hanno curato l’esposizione su Napoleone alla Grande Halle de La Villette, che vi consiglio di visitare se siete di passaggio a Parigi (la Villette è un posto molto particolare, tra l’altro).
Secondo Chevallier la comparazione tra i due uomini ha poco senso dal punto di vista storico: il regime è completamente diverso, il contesto anche, la formazione difficilmente sovrapponibile. Persino la categoria di «bonapartismo» è in qualche modo fuorviante: la utilizziamo per Napoleone, che tuttavia non l’ha inventata e probabilmente non saprebbe descriverla. Poi certo, tra storia e suggestione esiste una certa differenza, e la politica utilizza la prima per nutrire la seconda.
Gli ho chiesto i motivi per cui il generale suscita ancora così tanta passione e interesse. Chevallier la mette sul piano dei ricordi personali: «Napoleone è parte dell’album di famiglia, fa parte del décor come direbbe Proust: vi interessa perché fa parte della vostra storia personale. I francesi sono profondamente attaccati alla loro storia, li appassiona, li struttura, e non potrebbe essere diversamente, perché la Francia, come l’Inghilterra, è lo stato-nazione più antico d’Europa. Il passato ha un peso».
Chevallier si dice convinto che il bonapartismo abbia influenzato profondamente la costruzione della Quinta Repubblica francese e la costituzione attuale, che fa del presidente della Repubblica il capo dell’esecutivo e delle forze armate: «Napoleone impone una confusione del potere civile e militare: dalla rivoluzione in poi la Francia diventa il paese più militarista d’Europa. La formazione del cittadino passa dall’esercito, perché la rivoluzione introduce il concetto di esercito dei cittadini. In qualche modo l’esercito non è funzione della cittadinanza, è la cittadinanza stessa».
Sulla profonda influenza di Bonaparte gli storici sono piuttosto unanimi. Patrice Gueniffey ha scritto una lunghissima e dettagliata biografia dell’imperatore, oltre ad aver curato innumerevoli altri testi. A France Culture, che gli chiedeva in cosa si può riconoscere l’impronta di Napoleone, ha risposto così: «Una certa maniera di concepire il potere esecutivo, di esagerarne le competenze, le prerogative e i poteri, l’antiparlamentarismo che è un tratto comune della politica francese dall’Ottocento fino a oggi, il potere della tecnocrazia, in realtà l’opposto del bonapartismo che invece riposa sui plebisciti e più ancora sulla personalità carismatica del capo. In realtà, il sistema dei due Napoleone si basa sulla tecnocrazia al potere, e tutto questo influenza la storia francese».
Ora, appare chiaro come mai, visto questo quadro, Emmanuel Macron utilizzi politicamente la figura dell’imperatore. Ma anche perché in questi anni abbia provato a riavvicinarsi alla Russia, uno Stato che il presidente considera come interlocutore imprescindibile, e che ha provato a blandire in tutti i modi proprio con il continuo richiamo a riferimenti storici comuni.
Il generale Gudin, che in Russia è morto durante una guerra di conquista per seguire il suo imperatore, diventerà probabilmente lo spettatore di uno dei tanti incontri tra Macron e Putin, il prossimo dicembre. Chissà cosa ne penserebbe.
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Consigli di lettura e fonti
Il lungo ritratto del Monde dedicato a Pierre Malinowski, pubblicato a ottobre 2020; anche Libération ha pubblicato un ritratto dell’“archeologo”.
La commemorazione di Bonaparte è stata preceduta da molte polemiche per il ruolo avuto dall’imperatore nel ristabilire la schiavitù nelle colonie. Qui un’analisi dell’Opinion, qui del New York Times, che dà una lettura particolare della scelta di Macron: «Il presidente ha scelto di entrare nel cuore delle guerre culturali in corso in Francia».
Un bellissimo dialogo tra Patrice Guennifey e Arthur Chevallier, ospiti di France Culture, sull’eredità di Napoleone e del bonapartismo.
Valeurs actuelles, riflette sull’occasione mancata per la riconciliazione tra Macron e Putin, ma in realtà, sottolinea questo articolo del Monde, la strategia del presidente francese è probabilmente fallita: nonostante le aperture e le attenzioni, la Russia non ha modificato la sua politica estera, molto aggressiva nei confronti dell’Europa, e nemmeno la sua politica interna, inflessibile contro l’opposizione (il pezzo è stato scritto a fine 2020, quindi prima dell’arresto di Alexei Navalny).