La Francia cresce, Macron sorride - Marat n. 29
Il Pil francese aumenta del 7%, la disoccupazione diminuisce, gli investimenti stranieri sono ai massimi storici. Perché i dati macroeconomici sono una buona notizia per il presidente
Lo scorso 17 gennaio, Emmanuel Macron ha pubblicato un breve video sui social per complimentarsi con Exotec, venticinquesima startup francese a superare il valore di un miliardo di euro. In gergo, queste aziende vengono definite “unicorni” (in francese licornes), perché rare e speciali. Il presidente, che aveva fissato il 2025 come obiettivo per raggiungere i 25 unicorni, ha voluto rivendicare questo risultato come una conseguenza della sua politica di apertura alle aziende e agli investimenti stranieri.
Per la Francia, il 2021 è stata un’ottima annata sotto questo punto di vista: 11 aziende hanno superato il valore di un miliardo di euro, un’accelerazione notevole, tenuto conto che gli unicorni erano soltanto 10 fino al 2020. In totale, le startup transalpine hanno raccolto 11,57 miliardi di euro di finanziamenti, un record che dimostra una grande fiducia degli investitori internazionali malgrado la pandemia. Per avere un termine di paragone, le startup italiane hanno raccolto nello stesso periodo 1,3 miliardi, quasi dieci volte in meno.
Il 2022 sembra essere iniziato ancora meglio, 4 nuovi unicorni a gennaio e circa 2 miliardi di finanziamenti raccolti. Mantenendo questo ritmo, il record del 2021 sarà presto superato, e Macron non mancherà di spendere un simile dato in campagna elettorale. Come sempre, in Francia, non può essere sottovalutato l’elemento simbolico: il paese è storicamente orgoglioso delle sue grandi aziende come l’Oréal, Danone, Airbus, LVMH. Avere nuove realtà in grado di competere sui mercati internazionali serve, oltre che a creare nuovi posti di lavoro, anche a migliorare il morale nazionale, spesso condizionato da una narrazione declinista e pessimista.
Uno dei cavalli di battaglia di Macron era trasformare la Francia in una “startup nation”, un paese in grado di attirare capitali e talenti sfruttando anche le opportunità create dalla Brexit e dall’incertezza degli investitori sul futuro di Londra, fino a quel momento indiscussa capitale dell’innovazione in Europa.
A pochi mesi dalla sua elezione, Macron lanciò “Choose France”, un summit dedicato alle grandi multinazionali da tenere a Versailles per convincerle a investire nel paese. Al tavolo c’erano aziende di tutti i settori, come Heineken, Facebook, Siemens, Toyota e le grandi case farmaceutiche. Ogni anno, il presidente accoglie alla reggia i più importanti imprenditori del mondo, discute con loro dello stato dell’economia francese, organizza incontri bilaterali con i ministri competenti, spiega come intende riformare il paese.
Secondo i dati dell’Eliseo, l’iniziativa funziona: in quattro anni il summit ha creato le condizioni per 58 progetti industriali, 8 miliardi di euro di investimenti e 140mila posti di lavoro (salvati o creati).
L’attenzione al mondo delle imprese in questi anni è stata evidente. Macron ha riformato il codice del lavoro, rendendolo più flessibile e dando più peso ai contratti frutto di accordi aziendali rispetto a quelli conclusi dal settore, ridotto la tassazione sulle imprese dal 33% al 25%, eliminato l’imposta sulla fortuna che colpiva i grandi patrimoni, e introdotto una flat tax del 30% sui redditi da capitale.
Allo stesso tempo, i grandi eventi con i principali amministratori delegati delle imprese tecnologiche mondiali, oltre che la riduzione delle tasse ai più benestanti, hanno contribuito ad alimentare l’immagine di un “presidente dei ricchi”, un tratto che ha danneggiato Macron e alimentato varie crisi politiche, in primo luogo quella causata dalle proteste violentissime dei gilet gialli. Le critiche alla flat tax, inoltre, sono state copiose e vertevano sul fatto che avrebbe aumentato la propensione delle aziende a versare dividendi agli azionisti piuttosto che a investire per restare competitive nel lungo periodo.
Cosciente di queste sue difficoltà, il presidente ha lavorato anche per aumentare il potere d’acquisto dei francesi: ha ridotto i contributi obbligatori dei lavoratori dipendenti, ha soppresso la taxe d’habitation, una tassa sulle proprietà immobiliari, e ha eliminato contributi e ridotto parzialmente le tasse sugli straordinari. Uno sforzo però mal percepito: in un sondaggio condotto da OpinionWay per Les Echos lo scorso settembre, il 56% della popolazione sostiene che il proprio potere d’acquisto sia diminuito durante il mandato di Macron.
La sensazione dei cittadini è senza dubbio aggravata dall’aumento del prezzo dell’energia e dell’inflazione in corso. E malgrado una comunicazione molto attenta del ministro dell’Economia Bruno Le Maire, che scandisce cifre positive, rilascia comunicati stampa dettagliati, moltiplica le interviste ottimiste, la partita sul potere d’acquisto è probabilmente persa. Tuttavia, i dati macroeconomici compensano in parte questa erosione: nel 2021, l’economia francese è cresciuta del 7%, recuperando quasi tutti i punti persi nel 2020, quando il Pil era diminuito dell’8%. Se consideriamo il periodo del mandato di Macron, da maggio 2017 a oggi, l’economia francese è cresciuta nel complesso di quasi 5 punti, malgrado il terribile primo anno di pandemia. In più, grazie alle politiche fortemente espansive del governo, il tasso di povertà, cioè la parte di francesi che vive al di sotto del 60% del reddito mediano, era del 14,1% nel 2017 ed è oggi al 14,6%. Una crescita contenuta, se si considera la recessione brutale che tutta l’Europa ha attraversato.
Infine, il presidente ha mantenuto la promessa di abbassare la disoccupazione, calata di quasi due punti dal 2017, quando era del 9,5%, e diminuita del 12% su base annuale nel 2021 (ma era relativamente facile, visto il picco del 2020). Di questo i francesi danno grande credito a Macron, come dimostrano tutti i sondaggi che valutano l’operato dell’esecutivo.
L’intervento del governo ha avuto però un prezzo: nel 2021 il debito pubblico ha raggiunto il 116% del Pil, e il deficit ha sfiorato il 7%. Delle cifre sostenibili soltanto con una crescita economica da verificare nel medio periodo.
Alla luce di tutto questo, si può capire come mai chi ha votato per Macron nel 2017 è propenso a ripetere la scelta nel 2022. Questo sondaggio dell’Istituto Ipsos è molto chiaro, e mette in evidenza i flussi tra i candidati alle ultime presidenziali e quelli presenti oggi. Macron possiede l’elettorato più solido di tutti: è un ottimo punto di partenza per chi chiede un nuovo mandato.
Non solo, come ha scritto Brice Teinturier, direttore generale dell’istituto Ipsos, sul Monde la settimana scorsa: «Il panel Ipsos ci permette di ricostruire il voto del 2012 e chiedere a questi elettori cosa voterebbero nel 2022. Il 36% di chi ha votato François Hollande (centrosinistra) e il 35% di chi ha votato Nicolas Sarkozy (centrodestra) nel 2012 dichiara di voler votare Macron nel 2022. Lo avevano già fatto nel 2017, soprattutto a sinistra, e anche se osserviamo qualche “perdita”, questi segmenti resistono. L’offerta attuale non convince i “convertiti” di sinistra e di destra, che potrebbero continuare a votare Macron il prossimo 10 aprile. È un elemento chiave del risultato finale».
Consigli di lettura e fonti
La crescita economica francese è stata «spettacolare», ha detto il ministro dell’Economia Bruno Le Maire. Un’analisi del New York Times cerca di capire perché, il Monde si chiede se non sia troppo presto per dire che va tutto bene, per l’Opinion questa crescita va verificata nel medio periodo, perché per ora è soltanto un rimbalzo. Anche Libération ha qualche dubbio.
Una critica della flat tax di Macron, su La Tribune, per La Croix anche la diminuzione della disoccupazione è «fragile».
Perché in Francia funzionano le startup, su Sifted, secondo Les Echos esiste un “effetto Macron” sugli investitori stranieri.
L’articolo di Brice Teinturier, che aiuta a capire com’è composto l’elettorato di Macron e perché è ancora molto solido.