La fine del corpo diplomatico - Marat n. 47
Il 16 aprile scorso, con un decreto, Emmanuel Macron ha soppresso i due principali gradi della diplomazia francese. Una scelta che ha portato allo sciopero dei funzionari del ministero degli Esteri
Il 27 agosto 2019, pochi giorni dopo aver ricevuto Vladimir Putin al Fort de Bregançon, la residenza estiva della Presidenza della Repubblica in Costa Azzurra, Emmanuel Macron si rivolge ai diplomatici riuniti a Parigi per ascoltare il suo discorso alla conferenza degli ambasciatori e delle ambasciatrici. In teoria si tratta di un momento formale e di routine, che serve al presidente per esporre la sua visione degli affari internazionali e fornire alcune linee guida generiche da seguire. In pratica si trasforma in un duro attacco ai diplomatici: evocando uno «Stato profondo» che si opporrebbe ai tentativi di riavvicinamento tra Francia e Russia, Emmanuel Macron striglia duramente i presenti: «So che molti di voi si sono formati nella sfiducia nei confronti della Russia… In generale, su questo argomento, si ascolta il presidente e poi si fa come al solito, senza seguirlo. Posso solo consigliarvi di non seguire questa strada».
Il discorso, all’epoca molto commentato per i toni e l’idea di fondo, riassume bene il rapporto molto complesso tra Macron e il Quai d’Orsay, il soprannome del ministero degli Esteri che ha sede proprio su uno dei lungosenna. Questo rapporto è culminato nella decisione del presidente, che ha firmato un decreto il 16 aprile scorso, di sopprimere i due corpi diplomatici apicali, quello di consigliere di affari esteri e quello di ministro plenipotenziario, i gradi che aprono la porta al ruolo di ambasciatore. Giovedì 2 giugno, fatto rarissimo, i funzionari del ministero degli Esteri hanno deciso di scioperare contro questa decisione, organizzando una piccola manifestazione a Parigi di fronte al Quai d’Orsay. Fedeli al proprio dovere di riservatezza, i diplomatici non hanno concesso interviste ai media se non in qualche occasione in particolare, ma alcuni hanno deciso di comunicare la loro adesione allo sciopero e di motivarla sui social media, in particolare su Twitter, dove la diplomazia francese è attivissima (i diplomatici sono incoraggiati a utilizzare il mezzo per contestualizzare le posizioni francesi nel mondo di fronte a un pubblico più ampio).
Fino a oggi, chi voleva diventare diplomatico in Francia aveva tre strade dirette, i cosiddetti concorsi di categoria “A”. Il primo, e più difficile, è il concorso per consigliere di affari esteri, il «Cadre d’Orient» riservato a chi conosce una lingua di una delle seguenti zone: Europa orientale e Asia centrale (russo, persiano, turco), Maghreb (arabo, lingua hausa, ebraico, mandingo o swahili), Asia orientale (hindi, giapponese, mandarino); il secondo è il concorso per il ruolo di segretario di affari esteri, un gradino immediatamente inferiore a quello di consigliere, ma anch’esso con una prova in una lingua “rara” di quelle citate, siamo sempre dunque nell’ambito del «Cadre d’Orient»; il terzo è sempre per il ruolo di segretario di affari esteri, ma non prevede la prova in una lingua “rara” di quelle citate e viene detto «Cadre général».
La quarta strada, indiretta, era quella dell’Ena, l’École nationale de l’Administration, la scuola preparatoria di due anni che consentiva l’accesso ai corpi di élite dell’amministrazione in funzione del piazzamento finale (Macron, per esempio, scelse l’ispettorato delle finanze al ministero dell’Economia). In questi quattro casi, chi entrava al ministero degli Affari esteri poteva passare tutta la propria carriera all’interno del corpo diplomatico, salendo i vari gradini e diventando, a un certo punto, ambasciatore. Dal 2023 non sarà più così: l’Ena è stata soppressa e le nuove reclute dell’Alta amministrazione saranno integrate in un unico grande corpo, quello degli Amministratori di Stato, che non saranno dunque assegnati a un ministero specifico, ma avranno accesso a tutte le amministrazioni statali. In concreto, sarà possibile passare un periodo al ministero dell’Agricoltura, un altro in un’ambasciata in quanto diplomatico, un altro ancora alla guida di una prefettura. «Non è una riforma pensata contro i diplomatici, ma un generale ripensamento dell’alta funzione pubblica: il presidente e il suo entourage sono convinti che i corpi dello Stato siano troppo chiusi in se stessi e sia necessario renderli più flessibili. Da qui, l’accento su quella che definiscono “interministerialità”, cioè una classe di alti funzionari generalisti che possono fare tutto», mi ha spiegato Christian Lequesne, professore a Sciences Po ed esperto di diplomazia.
Il problema di questa visione, sostengono i diplomatici, è duplice. In primo luogo, la diplomazia è un mestiere che si impara negli anni, che presuppone una certa dose di vocazione e predisposizione: si accetta di cambiare paese ogni tre o quattro anni, di andare a lavorare in luoghi dove la qualità della vita è molto bassa e la sicurezza personale difficile da garantire: «Può sembrare strano, ma vivere in questo modo si impara nel tempo, è necessario trovare un equilibrio tra famiglia, carriera, vita privata e vita “pubblica”», mi dice un diplomatico francese di alto rango. Inoltre, il ruolo di questi funzionari è molto diverso da quello di chi resta in patria: si deve essere in grado di costruire, con fatica, dei rapporti di fiducia con la società, la politica e la cultura del paese dove si è stati inviati, ma anche con le altre delegazioni internazionali. Diversi diplomatici, italiani e francesi, mi hanno raccontato più volte che i rapporti personali con i propri omologhi, tessuti negli anni tra le diverse sedi, i periodi presso le organizzazioni internazionali e i momenti di “ritorno” nella capitale di origine, sono fondamentali per sbloccare negoziati complessi o evitare incomprensioni. La fiducia non si costruisce in un solo anno di lavoro, e nemmeno la capacità di partecipare a negoziati internazionali che tengono insieme norme di diritto, pregiudizi dovuti alla propria origine, contesto geopolitico e un’altra serie di variabili minori. A questo si affiancano le questioni burocratiche e una certa flessibilità di fronte agli imprevisti: «I francesi, come tutti, si mettono frequentemente nei “guai” all’estero. Il nostro lavoro consiste spesso nel gestire situazioni complicate e la carriera è relativamente lenta e molto gerarchica, anche perché sono necessari tempo ed esperienza per riuscire a farlo. Ottenere un ruolo apicale in un’ambasciata senza conoscere tutto ciò che c’è dietro, può costituire un grande limite al lavoro quotidiano», prosegue lo stesso diplomatico, piuttosto amareggiato per la riforma.
Il secondo problema è che gli stessi diplomatici ritengono di non possedere le competenze per lavorare in altre amministrazioni, come invece previsto dalla riforma: «Il fatto che io sia stato ambasciatore in una grande capitale non fa di me un funzionario capace di gestire l’ordine pubblico a Marsiglia o Parigi. Senza contare che ci prepariamo al concorso per lavorare sulle questioni internazionali, non su altro», mi ha detto un altro diplomatico con una lunga esperienza all’estero. Questo aspetto della riforma è stato parzialmente depotenziato: i dipendenti che arrivano dal ministero degli Esteri hanno ottenuto il diritto di continuare a lavorare nella propria amministrazione di competenza, e il concorso meno prestigioso, quello di segretario di Affari esteri, continuerà a essere il primo scalino di ingresso in diplomazia (anche quello di «cadre d’Orient» sarà mantenuto, ma questo darà accesso agli Amministratori di Stato, e non più al ministero degli Esteri). Il problema è che i funzionari che sceglieranno di rimanere al Quai d’Orsay potrebbero implicitamente rinunciare a ottenere posti di rilievo.
Un ulteriore rischio che sottolineano i funzionari del ministero degli Esteri è quello della progressiva “politicizzazione” degli incarichi diplomatici, come oggi accade negli Stati Uniti. La regola, in Francia come in Italia, è che chiunque può diventare ambasciatore: è un diritto del presidente nominare persone di sua fiducia, per quanto questo sia un fatto piuttosto raro. L’esempio famoso, in Italia, è quello di Carlo Calenda, nominato ambasciatore presso l’Unione europea dal governo Renzi nel 2016 (la scelta destò parecchie polemiche, e dopo due mesi Calenda tornò a Roma a fare il ministro dello Sviluppo economico). Secondo Christian Lequesne, tuttavia, concretamente potrebbe cambiare poco: «Esisterà sempre una filiera diplomatica nell’alta amministrazione, pur rientrando nel grande calderone degli “alti amministratori”, i diplomatici e le diplomatiche avranno sempre una corsia preferenziale per andare a lavorare all’estero. Il problema è che questo potrà essere vero “in pratica”, perché dal punto di vista legislativo non c’è alcuna garanzia: sulla carta i corpi diplomatici non esistono più».
Di certo questo ulteriore passo non aiuterà a migliorare i rapporti tra Eliseo e Quai d’Orsay. In questi cinque anni di mandato, il ministero degli Esteri è stato quasi sempre tenuto all’oscuro delle scelte, delle dichiarazioni e delle iniziative del presidente della Repubblica: sulla Nato, sul nucleare iraniano, sul’autonomia strategica europea, sull’atteggiamento nei confronti della Russia e degli Stati Uniti, i diplomatici si sono spesso trovati di fronte a un fatto compiuto, senza avere la possibilità di preparare per tempo la gestione dei “danni” provocati dal presidente. Alcuni si lamentano di questo atteggiamento, altri tendono a relativizzare: «La politica estera si fa all’Eliseo, il ruolo della diplomazia è portare al presidente interpretazioni dei fatti, consigliare quale posizione tenere e fornire gli elementi di linguaggio per sostenerla e spiegarla all’opinione pubblica e alle controparti. Il ruolo è anche intervenire dopo per mettere in pratica ciò che decide l’Eliseo. Non c’è scritto da nessuna parte che il presidente debba condividere ciò che intende fare con il ministero degli Esteri», mi ha spiegato una diplomatica francese che lavora in un’ambasciata di un paese Nato. Tuttavia, il problema è altrove, conclude la stessa diplomatica: «Il punto è che è passato il messaggio di una diplomazia indisciplinata, mentre noi siamo un’amministrazione leale. Facciamo molto e con pochi mezzi, accettiamo tutto (budget risicato, straordinari non pagati) perché fa parte del nostro spirito di servizio: ma questa riforma, così com’è, è inaccettabile per noi. È giusto che il governo lo sappia».
Un breve aggiornamento elettorale prima di concludere
Il 12 giugno i francesi votano per rinnovare l’Assemblea nazionale. È molto difficile leggere questa campagna elettorale, poco partecipata e commentata dai media e dai principali candidati. Non perché manchi l’incertezza: i sondaggi indicano una situazione potenzialmente complicata per Emmanuel Macron, che potrebbe ritrovarsi con una maggioranza relativa in Parlamento e quindi tentare un governo di coalizione (se non addirittura un governo di minoranza che cerca i voti in aula coagulando maggioranze diverse a seconda del tema in discussione). Dopo il primo turno di domenica prossima sapremo un po’ di più di come andrà a finire.
Per questo, il prossimo numero di Marat arriverà il 12 giugno sera, dopo i risultati.
Consigli di lettura e fonti
Ouest France scrive un utile riepilogo rispondendo a varie domande sull’argomento; il Figaro raffronta il sistema francese di accesso al corpo diplomatico con quello di altri paesi; l’Express ha pubblicato un lungo articolo che spiega il motivo della protesta.
Il Monde ha pubblicato una serie di infografiche sulla situazione della diplomazia francese che aiutano a capire l’importanza della rete diplomatica (il pezzo è del 2017, ma è molto utile per farsi un’idea). Les Echos descrive il palazzo del ministero degli Esteri.