I cinque duri anni che attendono Emmanuel Macron - Marat speciale secondo turno
Il presidente entra nella storia ottenendo un secondo mandato con il 58,8%, ma dovrà presto trovare un equilibrio tra chi ha scelto il suo progetto e chi rigetta le sue politiche
Emmanuel Macron è rieletto presidente con il 58,8% dei voti, un risultato netto e più ampio di quanto previsto. Non si tratta di una percentuale raccolta per adesione, ma per difetto: molti elettori si sono mobilitati per evitare la vittoria di Marine Le Pen, ancora una volta percepita dai francesi come pericolosa e incapace di governare. Allo stesso tempo, come direbbe il presidente, non è possibile sottovalutare il 27% raggiunto al primo turno e la grande affermazione di stasera. In Francia c’è una parte di paese che sostiene le politiche macroniste, e un’altra parte, meno convinta, che tuttavia gli riconosce la capacità di gestire crisi impreviste e molto sfidanti, caratteristiche che l’elettorato non riscontra negli altri candidati: il 58% dei francesi dichiara di averlo votato perché convinto che sarà un buon presidente, il 42% per evitare che Marine Le Pen vincesse. Nel suo discorso davanti ai suoi sostenitori, riuniti alla base della Tour Eiffel, Macron si è mostrato in ogni caso cosciente della particolarità della sua elezione: «So che molti dei nostri connazionali oggi hanno votato per me non per adesione alle idee che sostengo, ma per bloccare quelle dell’estrema destra. Voglio ringraziarli e dire loro che sono consapevole che il loro voto mi obbliga per gli anni a venire».
Macron è già nella storia per essere il primo presidente rieletto con una maggioranza in esercizio: François Mitterrand e Jacques Chirac sono stati rieletti facendo campagna elettorale contro il primo ministro uscente in periodo di “coabitazione”, un fenomeno possibile a causa della differenza di durata del mandato parlamentare (5 anni) e di quello presidenziale (7 anni). Dal 2002 i mandati sono parificati e contemporanei.
Una delle prime scelte importanti che dovrà compiere il presidente è la nomina del nuovo primo ministro, tra una decina di giorni, insieme al resto del governo; l’Eliseo ha fatto sapere che la nomina non avverrà immediatamente, come invece è tradizione, ma un po’ più in là, forse nel corso della prima settimana di maggio. La composizione dell’esecutivo sarà un segnale politico, anche perché i ministri saranno impegnati in prima persona nella campagna elettorale per le elezioni legislative, che si terranno i prossimi 12 e 19 giugno, alle quali è tradizione che in molti siano anche candidati. Le legislative sono, di fatto, 577 mini-presidenziali: il territorio è diviso in altrettanti collegi uninominali che eleggono il proprio deputato in un sistema maggioritario a doppio turno, e che in genere consegna una maggioranza solida al partito del presidente appena eletto.
Stavolta gli avversari di Macron vogliono provare a trasformare le elezioni legislative in una sorta di “terzo turno”: in particolare Jean-Luc Mélenchon, che ha ottenuto il 22% il 10 aprile scorso e intende provare a utilizzarlo per lanciare una nuova campagna elettorale: «Chiedo ai francesi di eleggermi primo ministro a giugno», ha detto in un’intervista a BFMTV la scorsa settimana. È una dichiarazione velleitaria forse, ma mette in luce le possibili difficoltà per il presidente rieletto.
Ai due blocchi che hanno avuto accesso al ballottaggio, ne va aggiunto infatti un terzo. L’elettorato di Mélenchon è il più interessante, perché il leader della France insoumise è riuscito a federare categorie sociali molto diverse tra loro, intorno a un’idea chiara di società, apertamente contraria al sistema capitalistico e alle alleanze internazionali della Francia. Certo, c’è il limite del voto utile da tenere in considerazione: molti elettori hanno scelto Mélenchon perché era il candidato di sinistra nella miglior posizione per accedere al secondo turno, ma questo schema potrebbe riprodursi alle elezioni legislative. Cosa può fare Macron per attirare nuovamente verso di sé gli elettori della sinistra moderata che lo avevano scelto nel 2017 e oggi sono delusi? È improbabile che possa concedere più di tanto sulle tematiche economiche del suo programma: il presidente ha dichiarato, nel suo discorso, che intende portare avanti il suo «progetto», pur tenendo conto delle aspirazioni che le urne hanno rivelato. D’altro canto, non può bastare qualche dichiarazione accomodante sulla riforma delle pensioni o un bel discorso sull’ecologia per riequilibrare la piattaforma della maggioranza presidenziale, solidamente ancorata nel centrodestra. Un primo ministro chiaramente di sinistra? Potrebbe essere una mossa per affrontare le elezioni legislative “riequilibrando” la propria offerta, ma c’è il rischio poi di allontanare gli elettori di centrodestra, oggi decisivi nella coalizione elettorale macroniana.
La verità è che i soli segnali che il presidente può inviare sono sulle riforme istituzionali, vero dossier prioritario del suo prossimo mandato, insieme alla gestione delle difficoltà economiche a cui inevitabilmente l’Europa andrà incontro. Una dose di proporzionale alle elezioni legislative, più spazio alle leggi di iniziativa popolare, ampliamento del ricorso ai referendum popolari: questi potrebbero essere dei buoni punti per mostrare ascolto verso le istanze che gli elettori di sinistra hanno portato avanti. Questi cambiamenti, per la verità, servono anche per evitare che il 28% dei francesi che si sono astenuti al ballottaggio faccia completamente secessione con il processo democratico: quello della salute delle istituzioni della Quinta Repubblica, che con il suo sistema elettorale distorce profondamente i rapporti di forza politici in Parlamento (attualmente il Rassemblement national ha soltanto 8 deputati), e concentra il potere nelle mani di una sola persona, è il passaggio più delicato della presidenza. Sul tema, tuttavia, Macron non coltiva illusioni: i prossimi 5 anni saranno «duri», ha detto alla Tour Eiffel.
Una delle ragioni che lo hanno portato al potere nel 2017 è stata la crisi profonda dei corpi intermedi e la sua capacità di parlare direttamente con una parte della nazione, che si è riconosciuta in primo luogo nel suo personaggio, e in secondo nel suo messaggio. Durante questo primo mandato, Macron ha governato facendo profondamente leva sulla disintermediazione, ha cercato in ogni modo di minimizzare il ruolo dei sindacati, spesso umiliandoli (errore che ha riconosciuto nelle ultime settimane), ha lavorato per mettere in difficoltà i partiti tradizionali senza per questo strutturare il suo partito, la République en Marche, ridotto a mero comitato elettorale senza alcun peso nel dibattito del paese e nelle elezioni locali. Ma senza sindacati, senza partiti, senza diaframmi tra il potere e l’elettorato, la rabbia popolare ha soltanto un bersaglio: il presidente della Repubblica. A mediare non è rimasto nessuno, i luoghi del conflitto e della partecipazione sono rarefatti, chi vuole lamentarsi non ha più interlocutori, la contestazione si sposta in strada e si esprime nei confronti di tutto ciò che Macron rappresenta: i centri urbani, la globalizzazione, l’Europa, le élite, i politici. Questa tendenza accende le manifestazioni di piazza, viste come unico mezzo per ottenere risultati che il sistema istituzionale non consente di raggiungere con le elezioni. La vera sfida di lungo periodo per Macron è ben più complessa di una campagna elettorale: deve evitare di creare le condizioni per una vittoria delle forze estremiste nel 2027.
La sua sfidante sconfitta, Marine Le Pen, ha mostrato con il suo discorso, come già nell’ultima fase della campagna elettorale, che la “normalizzazione” è fallita. Denunciando «due settimane di metodi sleali e scioccanti», la candidata del Rassemblement national ha dichiarato che il suo risultato è «una vittoria eclatante» e che proseguirà la sua battaglia, perché «i francesi stasera manifestano il desiderio di una forte opposizione a Emmanuel Macron». Non si è mai complimentata con il suo avversario, un modo per sottolineare l’atteggiamento che avrà nei prossimi mesi. Il risultato è nettamente migliore rispetto a cinque anni fa, quando Marine Le Pen raccolse soltanto il 33% dei suffragi e quasi 3 milioni di voti in meno, ma non cambia la sostanza: il Rassemblement national non è competitivo.
Esiste, quindi, un serio rischio di smobilitazione per le prossime elezioni legislative, perché è inevitabile una certa stanchezza degli elettori lepenisti: votano per il Rassemblement national da quarant’anni, sembra che possano vincere ogni volta, e invece perdono sempre. A un certo punto ti chiedi se ha ancora senso farlo, perché il tuo investimento non ripaga mai.