Le maniche di camicia di Macron - Marat n. 38
Il presidente-candidato ha affrontato una settimana di campagna complicata tra un piccolo scandalo, la difficoltà nei sondaggi e il rischio dell’estrema destra. L’elezione è molto meno scontata
Emmanuel Macron attraversa velocemente il breve tratto di strada che dalle aule del liceo Marcs d’Or di Digione lo conduce alle auto della sua scorta. La giornata di lunedì 28 marzo è calda, il sole è forte e Macron si presenta insolitamente in maniche di camicia, un po’ a simboleggiare che «la campagna è cominciata» anche per lui, a meno di due settimane dal primo turno. Il convoglio, che durante le due ore di visita alla scuola non ha mai spento i motori, come impongono i protocolli di sicurezza, attenderà ancora un po’: il presidente decide di fermarsi a scambiare qualche battuta con i giornalisti e con altri liceali, curiosi ed entusiasti di poter stringere la mano al presidente.
L’obiettivo di questa uscita è abbandonare finalmente i vestiti di presidente per indossare quelli di candidato. Un’operazione molto complessa, non soltanto perché l’agenda presidenziale è monopolizzata dalla guerra in Ucraina, ma proprio perché è psicologicamente difficile passare da un ruolo all’altro: i politici sono attori, entrano nei propri personaggi, e Macron ha affinato per cinque anni la propria immagine da presidente della Repubblica. Trasformarsi improvvisamente in un animale da campagna elettorale, lui che in tutta la sua carriera ne ha condotta soltanto una, quella del 2017, è un esercizio poco naturale. A Digione, la difficoltà sembra superata, le maniche arrotolate sono il primo passo di una serie di segnali che costellano tutta la giornata, in cui il candidato prende il sopravvento sul presidente.
Tutto è studiato nei minimi dettagli, l’accoglienza del sindaco François Rebsamen, ex socialista che ha annunciato che voterà per lui, è un chiaro segnale all’elettorato di sinistra, così come la scelta di visitare il quartiere popolare della Fontaine D’Ouche. «Monsieur Macron, monsieur le Président!», gridano le persone ordinate dietro una fila di transenne metalliche allestita nel quartiere, e Macron non si risparmia: discutere con decine di francesi, alcuni anche arrabbiati con lui, è un’occasione per mostrarsi vicino ai cittadini che con l’esplosione dell’inflazione hanno subìto un grosso colpo al proprio potere d’acquisto. Naturalmente il servizio d’ordine e lo staff filtrano con attenzione le persone che riescono ad avvicinarsi al presidente, ma la visita si svolge in modo sereno, tanto che Macron, visibilmente soddisfatto, ignora completamente la sua agenda, che a fine giornata porterà quasi tre ore di ritardo. La verità è che al presidente fare campagna elettorale diverte, può passare anche ore a discutere in una piccola sala di provincia del suo programma, delle sue idee e delle sue intenzioni, come effettivamente accade nella sala della Maison Phare, la sede delle associazioni di Digione, dove è pronto un microfono che Macron terrà in mano per mezzo pomeriggio, tra una passeggiata e l’altra nel quartiere.
Tra Emmanuel Macron e i francesi non c’è la complicità carnale che salta agli occhi durante gli eventi elettorali di altri uomini politici, ma vige un rapporto diverso: quando è tra la folla, il presidente si ferma per pochi secondi, sceglie un interlocutore, posa le mani sui suoi avambracci e lo fissa in modo intenso, come se in quel momento esistessero soltanto loro due, come se Macron fosse lì soltanto per chi gli sta di fronte. Si riesce a percepire una sorta di magnetismo nei cittadini, che deriva dalla capacità di Macron di riuscire ad abitare la funzione che svolge e a trasmetterla; un contrasto marcato con l’immagine di freddezza emersa in questi anni di mandato e con l’esercizio piuttosto solitario e brutale del potere.
Questa prossimità è in parte studiata, frutto della cura ossessiva dell’immagine e della comunicazione da parte del suo staff, di cui avevamo avuto un assaggio durante la campagna del 2017, quando la sera successiva alle elezioni, TF1 diffuse un documentario, girato da una troupe indipendente che ebbe il permesso di seguire il candidato durante quasi tutto il periodo. All’epoca le immagini furono rivelatrici del controllo di se stesso mostrato da Macron: in mesi di campagna elettorale durissima, piena di colpi di scena, tradimenti, attacchi personali, il candidato poi diventato presidente non ha un momento di rabbia, dubbio o sconforto. Tutto è perfetto a favore di telecamera.
Così, nel pomeriggio di sabato 2 aprile, sul palco montato a La Défense Arena di Parigi, in mezzo a trentamila persone, è lo stesso presidente-candidato a citare il rapporto un po’ contraddittorio costruito con i francesi: «Conosco quegli sguardi a volte così amichevoli e così affettuosi, altre interrogativi e altre ancora anche arrabbiati. Quando ci incrociamo guardo sempre i vostri occhi, lo sapete, e tocco spesso anche le vostre braccia. Quando sei al comando, quando sei necessariamente quello che è ritenuto responsabile, è una fortuna essere accompagnato dagli sguardi di chi ti ha scelto così come dagli sguardi di chi non lo ha fatto».
È un modo per scaldare la folla, per provare a mobilitare il suo stesso elettorato, probabilmente convinto di vincere e per questo molto meno entusiasta rispetto al 2017. Anche Macron è diverso, e questa settimana in cui ho seguito i suoi tre eventi dedicati alla campagna, ha dimostrato quanto sia insolito tenere insieme l’abito del presidente e le maniche di camicia del candidato: giovedì 31 marzo, una piccola folla si accalca di fronte al municipio di Fouras, una cittadina di tremila abitanti sulla costa atlantica, tra La Rochelle e Bordeaux. È una mattina fredda, quasi gelida, con il vento dell’oceano che si incunea tra le case del villaggio e muove incessantemente le tende dei negozi, ma questo non ha scoraggiato i cittadini, venuti a vedere il presidente di persona. Alcuni hanno viaggiato per centinaia di chilometri per essere qui, come un piccolo gruppo di JAM, i Jeunes avec Macron, seduti nel mio stesso scompartimento del treno, ben felici di partire alle 6.50 da Paris Gare d’Austerlitz per arrivare in tempo, o come un gruppo di eletti locali, arrivati dalla Vandea per sostenere il loro candidato.
Dopo una lunga processione nel corridoio formato dai presenti, Macron improvvisa un discorso aiutandosi con un tavolino bianco portato al centro della piazza del mercato di Fouras per l’occasione. E qui, al candidato subentra di nuovo il presidente: per circa quaranta minuti, Macron dettaglia tutte le misure a favore dell’ecologia prese durante il suo mandato, ricorda che per la transizione ecologica «è necessaria la pianificazione da parte dello Stato», e che il suo progetto è l’unico credibile. Non un comizio, ma una lunga opera pedagogica che le persone ascoltano, educate, anche in questo caso speranzose di poter scambiare qualche parola con lui. A Fouras, il messaggio politico è chiaro: la settimana è dedicata alla sinistra, anche per mandare un segnale alla sua vera rivale, Marine Le Pen, capace di presentarsi in questi mesi come «la candidata del potere d’acquisto» e di attirare in modo netto i voti delle classi popolari, molto attente all’aumento dei costi causato dalla pandemia, dalla transizione energetica e dalla crisi in Ucraina.
«Da cinque anni mi viene detto “questa cosa parla alla sinistra” o “quest’altra parla alla destra”. Rivendico su questo argomento di essere abbastanza gollista, il generale diceva che la Francia è di sinistra quando si tratta di movimento, di cambiamento, mentre tende verso decisioni di destra quando c’è bisogno di ordine, lavoro e merito. Nel programma ci sono immancabilmente delle riforme che hanno un’aspirazione di destra e altre che invece si ispirano alla sinistra, al governo ci sono persone che vengono da sinistra, altre che vengono dalla destra, come nel mio gruppo in Parlamento. Credo che sia per questo che i francesi mi hanno votato. Per cui, delle attribuzioni, del sapere se ciò che faccio è di destra o di sinistra, io me ne frego, regalmente, totalmente, presidenzialmente».
Durante una conferenza stampa di oltre quattro ore, organizzata il 17 marzo scorso ad Aubervilliers, periferia nord di Parigi, Emmanuel Macron aveva presentato il programma in questo modo, rivendicando ancora una volta il suo marchio di fabbrica, «allo stesso tempo», e la sua capacità di parlare a un elettore di sinistra come a uno di destra, capacità sottolineate da tutte le indagini sulla composizione del suo elettorato, “misto” e difficilmente collocabile soltanto da una parte. Allo stesso tempo, la percezione dei francesi è molto netta: soltanto il 10% degli elettori posiziona Macron a sinistra, mentre il 57% a destra, secondo un sondaggio Ipsos condotto lo scorso ottobre. Un sentimento di certo rafforzato dal tono della conferenza stampa e da alcune misure proposte, come l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 65 anni.
Così, nel suo comizio a La Défense, i riferimenti alla sinistra sono molteplici: c’è la condanna ai «grandi gruppi privati che vorrebbero decidere al posto delle nazioni», l’avvertimento contro il «capitalismo senza regole», il rifiuto della precarietà dei pensionati «che dopo una vita di lavoro non arrivano alla fine del mese», e ancora la critica a chi vorrebbe tagliare le prestazioni sociali per «risparmiare a spese dei francesi più precari, con gli stipendi più modesti». Ciliegina sulla torta, l’attacco al «sistema» che «nonostante i vostri applausi, ci dirà che ciò che vogliamo fare è impossibile. Noi lo faremo!».
Il tono sale anche perché i sondaggi non sono entusiasmanti, come se la guerra in Ucraina avesse esaurito il suo effetto. In “macronia” girano due teorie, che ho raccolto durante questa settimana trascorsa con il presidente-candidato. La prima, pessimista, è che En Marche! abbia sbagliato a entrare in campagna così tardi e soprattutto in contemporanea con la legge che impone la parità di tempo di parola sui media radiotelevisivi. A due settimane dal primo turno, infatti, la legge prevede che ogni candidato abbia lo stesso tempo di parola (diretta o indiretta), in televisione e radio. Questa regola non si applica soltanto alle interviste, ma anche alle dichiarazioni riportate durante i servizi. Così, il tempo che trovano le critiche dei diversi sfidanti, fisiologicamente concentrate sul presidente in carica e primo nei sondaggi, è molto più ampio rispetto a quello di cui può godere Macron.
La seconda teoria, invece, è più ottimista e cinica. Le Pen soffre di una maledizione: sale molto nei sondaggi quando non sembra un pericolo, ma poi, una volta dimostrato di essere competitiva, causa un rigetto nell’elettorato che si mobilita per evitare che vinca. In fondo Macron ha teorizzato per tutto il mandato un sistema politico diviso tra il campo della ragione, il suo, e quello dell’estremismo, caratterizzato da Le Pen e poi Zemmour.
Questo campo, tuttavia, non è mai stato così solido quanto oggi, e per la prima volta la candidata del Rassemblement national può contare su delle “riserve” di elettori che al secondo turno potrebbero votare per lei. Parliamo di chi intende votare per Éric Zemmour, ma non solo: il 22% degli elettori che esprimono una preferenza per Valérie Pécresse e Jean-Luc Mélenchon al primo turno dichiara di voler votare per Le Pen al secondo, senza contare la grande astensione che sembra attirare il resto dell’elettorato, una configurazione che svantaggia Macron.
Il quadro è ulteriormente complicato da un piccolo scandalo che ha colpito il governo, fornendo così nuovi argomenti all’opposizione, afona dall’inizio dell’invasione russa e adesso rinfrancata da un inaspettato angolo di attacco. Il 17 marzo scorso, il Senato francese ha pubblicato i risultati di una sua inchiesta sui rapporti tra le amministrazioni pubbliche e le società di consulenza private, rivelando che gli appalti vinti da questi gruppi sono «più che raddoppiati» tra il 2018 e il 2021. Secondo il Senato, in tre anni i ministeri hanno fatto ricorso a circa 2000 società per un totale di 893,9 milioni di euro di spesa, anche se il 55% degli appalti è stato vinto da un piccolo gruppo di 20 aziende.
Ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, in particolare, è stata l’americana McKinsey, tra le società del settore più famose al mondo, che ha ottenuto numerosi appalti durante la crisi sanitaria (secondo il Monde circa 40, per un valore compreso tra 28 e 50 milioni di euro) ed è accusata dai senatori di non pagare le imposte in Francia. Inoltre, alcuni suoi dipendenti hanno legami piuttosto stretti con il presidente Macron: Karim Tadjeddine, capo del dipartimento dedicato al settore pubblico di McKinsey Francia, è stato nel 2017 uno dei principali contributori al programma del presidente; mentre altri dipendenti di McKinsey coinvolti nella stessa campagna del 2017 hanno ottenuto incarichi di responsabilità nell’amministrazione pubblica durante gli anni successivi. Il presidente si è difeso chiarendo che questo tipo di consulenze «non ha nulla di illegale», e ha liquidato chi ritiene il contrario con un invito a «rivolgersi alla giustizia penale».
Macron «il rosso», come ha scritto Libération dopo il comizio di sabato, “stupendosi” della conversione del candidato alle parole d’ordine della sinistra, sa che l’elezione è molto meno scontata di quanto pensassimo. Improvvisamente, la campagna elettorale è diventata vera anche per lui.
Consigli di lettura e fonti
Macron, l’ombra di un dubbio? Un bel pezzo di Gilles Finchelstein, della fondazione Jean Jaurès, sulla campagna elettorale di Macron che riprende il sondaggio di ottobre citato in questo numero. Il racconto del comizio di «Macron il rosso» su Libération, mentre Le Point si sofferma sulla settimana complicata del presidente-candidato, che non riesce ancora a eliminare la sua immagine di arroganza che gli viene attribuita da molti elettori.
Quali sono i pericoli per Macron se l’affaire McKinsey resta al centro dell’ultima settimana di campagna, secondo il Figaro. Una durissima critica dell’Obs e di Mediapart alla gestione di questi anni. Les Echos, invece, difende il presidente, e sostiene che la polemica è un ennesimo segnale del populismo che attraversa la politica e i media francesi. Sul Monde, invece, un riassunto fattuale di tutta la questione.
Il documentario su Macron, Les coulisses d’une victoire, è disponibile in italiano su Sky On Demand con il titolo “Macron: Dietro le quinte di una vittoria”; qui un’intervista dell’epoca al regista, che spiega come fu realizzato.