Il peso della guerra d’Algeria sulle presidenziali - Marat n. 36
Macron ha investito molto sulla pacificazione delle diverse memorie del conflitto, un dossier importante sia in politica estera che interna, per cui viene pesantemente criticato dagli avversari
A febbraio 2017, in piena campagna elettorale e a poche settimane dal primo turno, il candidato Emmanuel Macron inserisce nella sua agenda un viaggio a prima vista sorprendente. Il fondatore di En Marche! atterra ad Algeri, dove è ricevuto dai principali politici del paese, e sfrutta l’occasione per cominciare a trattare un argomento ineludibile per ogni pretendente all’Eliseo. Infatti, il viaggio sorprende l’opinione pubblica, ma non è così insolito: prima di lui, anche Nicolas Sarkozy aveva visitato l’Algeria da candidato alle presidenziali nel 2006, così come François Hollande nel 2010 o Alain Juppé nel 2015. Questo accade perché i rapporti tra Francia e Algeria sono un dossier particolarissimo, che tiene insieme politica estera e politica interna.
Dopo le visite istituzionali di rito, Macron concede un’intervista a un canale televisivo locale, e pronuncia parole molto chiare: «La colonizzazione è parte della storia francese ed è stata un crimine, un crimine contro l’umanità, una vera barbarie [...] Dobbiamo presentare le nostre scuse a tutte le persone contro cui sono state commesse queste azioni [...] La formula adatta, per quello abbiamo fatto, secondo me è la seguente: la Francia ha portato i diritti dell’uomo in Algeria. Semplicemente, ha dimenticato di leggerli».
La dichiarazione ha un significato politico forte, e crea una dura polemica che danneggia il candidato, immediatamente sanzionato nei sondaggi e contestato a Tolone, durante un comizio, da un gruppo di pieds-noirs, i cittadini europei che vivevano in Algeria scappati in Francia alla fine della guerra civile, nel 1962. La destra moderata dei Républicains lo accusa di «non essere all’altezza» della funzione presidenziale; critiche simili arrivano dall’allora Front national, da sempre punto di riferimento dei nostalgici dell’Algeria francese.
Il tema è così sentito perché è parte integrante della storia personale di moltissimi francesi e delle loro famiglie, ed è stato uno dei “dossier storici” più importanti del mandato di Emmanuel Macron. Secondo diverse analisi, i francesi che hanno un legame di qualche tipo con l’Algeria sono circa il 10% della popolazione, una fascia rilevantissima ma disomogenea. Tra il 1954 e il 1962, gli anni della guerra civile algerina, circa un milione e mezzo di soldati fu inviato dalla Francia metropolitana in Algeria a combattere contro il Fronte di liberazione nazionale, in molti casi ragazzini assolutamente impreparati alle atrocità di una guerra che causò più di 300mila morti. A loro e alle loro famiglie si aggiungono i pieds-noirs, gli ex residenti di origine europea nati in Algeria e costretti a scappare in Francia alla fine della guerra, gli harkis, i musulmani “lealisti”, che hanno combattuto per la Francia e, nonostante le promesse di integrazione e di protezione, sono stati abbandonati alle ritorsioni dei vincitori algerini: le stime sono molto contraddittorie, ma secondo diversi storici tra i 60mila e 80mila algerini (alcuni si spingono fino a 150mila) che avevano collaborato con l’esercito francese furono uccisi per ritorsione nel 1962. Infine, i figli dell’immigrazione algerina, 1,5 milioni di persone che possiedono la doppia cittadinanza e portano una memoria difficilmente conciliabile con quella degli harkis e dei pieds-noirs.
Come si possono tenere insieme tutte queste memorie e punti di vista? Come impostare i rapporti con il potere algerino, che si è costruito sul mito della guerra di liberazione contro la Francia?
È stato a lungo molto difficile, per i politici francesi dei partiti tradizionali, tenere un discorso ecumenico sull’argomento. Anche per questioni di sociologia elettorale: gli harkis e soprattutto i pieds-noirs hanno rappresentato un segmento di elettorato relativamente importante (tra uno e due milioni di persone), radicato nel sud-est del paese che ha sempre votato per il Front national in percentuale maggiore rispetto al resto della popolazione. Per questi elettori, Charles De Gaulle è sempre stato percepito come un traditore per aver firmato gli accordi di Evian, il 19 marzo 1962, con i quali, di fatto, la guerra fu chiusa e l’indipendenza dell’Algeria divenne irreversibile.
Oggi questo fenomeno esiste molto meno, mi ha detto Eric Savarese, ricercatore all’università di Montpellier e autore di diversi saggi sulle conseguenze della guerra d’Algeria: «I pieds-noirs arrivati in Francia negli anni Sessanta erano circa un milione, oggi sono la metà; gli harkis invece rappresentano circa 140mila persone. Se all’inizio il loro voto era molto connotato, ora non lo è più, quantomeno su scala nazionale: i comportamenti elettorali che notiamo sono simili a quelli del resto della popolazione». Resta tuttavia un tema molto più profondo, legato alle radici di milioni di persone, continua Savarese: «Il peso delle memorie di guerra in certi segmenti della società francese è ancora rilevante: pieds-noirs, harkis, ex combattenti francesi e loro discendenti, immigrati di origine algerina. È chiaro che ognuno ha una visione diversa di quello che è successo, e ancora oggi queste memorie si scontrano».
Il peso di questo conflitto è diverso da molti altri. Non può essere altrimenti: la guerra del ’54-’62 è l’atto fondatore della Quinta Repubblica francese, ed è in questo contesto di crisi gravissima che nel 1958 il generale De Gaulle torna al potere e decide di terminare l’avventura coloniale francese. Le cicatrici franco-algerine sono diverse da quelle che dividono britannici e indiani, italiani e somali. Secondo l’ex ambasciatore francese ad Algeri, Xavier Driencourt, che ha potuto vivere da un osservatorio privilegiato il rapporto bilaterale (è stato ad Algeri due volte, dal 2008 al 2012 e dal 2017 al 2020), la questione è complessa perché, appunto, non ci troviamo di fronte a una guerra coloniale, ma a quella che è di fatto una vera e propria guerra civile: «L’Algeria è stata francese prima di Nizza e della Savoia, l’annessione è del 1830 e fin da subito Parigi la intende come una colonia di popolamento e come un dipartimento: allo scoppio della guerra nel 1954, in Algeria abitava circa un milione di cittadini di origine europea che non aveva alcuna intenzione di andarsene. A me ha sempre colpito la data in cui è stata costruita la cattedrale di Algeri, il 1958, in pieno conflitto. Costruire una cattedrale vuol dire immaginare di restare in un luogo per sempre, per l’eternità della Chiesa. Questo fatto cambia radicalmente il quadro».
Emmanuel Macron ha dedicato molte energie, in questi cinque anni di mandato, alla costruzione di un patrimonio comune, beneficiando anche di un clima più favorevole rispetto agli anni passati, quando persino parlare di guerra era tabù, e si utilizzava l’espressione événements d’Algérie, gli avvenimenti d’Algeria, per definire un periodo storico che il governo francese non voleva ricordare, stretto tra le discriminazioni dell’avventura coloniale e l’incapacità di proteggere i cittadini francesi d’Algeria e gli algerini che si erano schierati dalla sua parte: «Oggi la storia della guerra d’Algeria è conosciuta, sono state condotte ricerche molto approfondite, scritti saggi, prodotti documentari e film. Non mi stupirebbe che venisse sorteggiata una traccia al tema di maturità sulla guerra d’Algeria, fino a vent’anni fa sarebbe stato inconcepibile. In questo periodo è stato fatto un gran lavoro, sia da parte della politica che dell’opinione pubblica: la storia dell’oblio e del tabù è ormai un argomento militante, non è più vera», mi ha spiegato Eric Savarese.
Dopo le dichiarazioni sulla colonizzazione da candidato alle presidenziali del 2017, Macron ha lentamente mutato la sua posizione. Ha creato una commissione «memoria e verità» per cercare di tenere insieme i differenti punti di vista, e affidato al principale storico della guerra d’Algeria, Benjamin Stora, la cura di un rapporto che prevede una serie di passi concreti per avvicinare tutte le comunità attraverso giornate della memoria, colloqui, monumenti, commemorazioni, inaugurazioni di mostre e musei permanenti. Non sempre è semplice, come dimostra il monumento dedicato all’emiro Abdelkader, figura importantissima del dialogo interreligioso tra francesi e algerini nell’Ottocento, vandalizzato il giorno della sua inaugurazione, il 5 febbraio 2022.
Malgrado le difficoltà, Macron ha compiuto un passo importante anche nei confronti degli harkis, chiedendo «perdono» per il comportamento francese, e nei confronti dei pieds-noirs. Il 26 gennaio scorso, il presidente ha ricevuto all’Eliseo una delegazione di francesi nati in Algeria, riconoscendo le responsabilità del governo nella sparatoria di rue d’Isly, il 26 marzo 1962 ad Algeri, durante la quale decine di manifestanti francesi, riuniti per protestare contro gli accordi di Evian, furono uccisi dall’esercito. «La Francia riconosce questa tragedia, questa strage è imperdonabile per la Repubblica», ha detto il presidente, ricordando anche il massacro del 5 luglio 1962 ad Orano, quando diverse centinaia di europei furono massacrati dagli algerini: «Anche questo massacro va guardato in faccia e riconosciuto».
Nel corso dell’ultima settimana, precisamente sabato 19 marzo, il presidente ha tenuto una piccola cerimonia all’Eliseo per commemorare i sessant’anni degli accordi di Evian. Rivolgendosi ai rappresentanti di tutte le comunità, ha ricordato che, dopo tutto questo tempo, la «pacificazione» non è ancora avvenuta, ma ha difeso il suo bilancio: «È un cammino, molto imperfetto, che serve a riconoscere quello che è accaduto in modo da mettere fine alle negazioni e ai silenzi. So di aver fatto e detto delle cose insopportabili per alcuni in questa sala, e cose insopportabili per altri, ma credo che fosse necessario farle o dirle».
Secondo l’ambasciatore Driencourt, la posizione di Macron si è evoluta in questi anni: «Credo che Macron abbia un buon approccio, la sua è la politica dei piccoli passi, dei piccoli gesti che lentamente riconciliano le differenti memorie. Il presidente è ambizioso, vorrebbe fare con l’Algeria ciò che Jacques Chirac ha fatto con il riconoscimento delle responsabilità francesi nel rastrellamento degli ebrei al Vel d’Hiv di Parigi durante l’occupazione nazista. Il problema è che, per completare la pacificazione, serve un’apertura da parte algerina che al momento non c’è. Credo che se sarà rieletto, Macron continuerà a lavorare in questo senso».
A dimostrazione di quanto la questione non sia soltanto storica, ma profondamente politica, le dichiarazioni di Macron, come di altri presidenti prima di lui, diventano tema di dibattito politico. Lo scorso venerdì, in un comizio a Metz, Éric Zemmour non ha perso occasione per affrontare l’argomento. Il candidato di Reconquête è figlio di ebrei sefarditi che sono scappati in Francia prima dell’inizio della guerra, nel 1952, e non stupisce quindi l’evocazione del suo «amore» per i pieds-noirs, e delle conseguenze ancora attuali del conflitto: «Questa è stata una guerra atroce, della quale continuiamo a subire gli effetti sul nostro suolo, a causa del rancore degli algerini contro di noi». Questo rancore, che secondo Zemmour si esprime negli attentati terroristici di matrice islamica, è stato alimentato dalle dichiarazioni di Macron e dalla sua politica durante il mandato. Anche Valérie Pécresse e Marine Le Pen hanno dichiarato di non condividere l’operato del presidente e la sua scelta di commemorare gli accordi di Evian: «La maggior parte dei civili è stata uccisa subito dopo la firma di quegli accordi», ha detto Pécresse.
Se Macron otterrà un secondo mandato, la questione algerina, o l’enigma algerino, come lo ha definito Xavier Driencourt, sarà piuttosto importante. E, oltre alla pacificazione nazionale, il presidente dovrà riuscire a coinvolgere Algeri, che non ha inviato nessun rappresentante alla commemorazione organizzata il 19 marzo: «Molti mi diranno: stai facendo tutto questo, ma fai sul serio perché l’Algeria non fa alcun passo verso di noi. […] Tutti i miei predecessori hanno dovuto affrontare la stessa cosa, ma penso che l’Algeria prenderà questa strada, un giorno». Il presidente spera che questo giorno arrivi nel corso dei prossimi cinque anni.
Consigli di lettura e fonti
L’enigma algerino, il memoir dell’ambasciatore Driencourt, pubblicato questa settimana, una sua lunga intervista all’Opinion sugli accordi di Evian e il rapporto franco-algerino; un lungo documentario in cinque episodi, prodotto da France télévision, sulla guerra d’Algeria con immagini dell’epoca restaurate e modificate a colori.
Un pezzo del Monde sulla visita di Macron ad Algeri nel 2017, una contestualizzazione di Rtl che spiega come mai il candidato ha deciso di intraprendere questo viaggio durante la campagna elettorale.
Il peso politico della memoria della guerra d’Algeria sulle elezioni presidenziali del 2022, sempre sul Monde; le principali raccomandazioni del rapporto di Benjamin Stora, su France Inter; la Francia è il teatro del conflitto tra le diverse memorie, secondo il Figaro.