

Discover more from Marat
La guerra moderna è una guerra tra ciechi - Marat n. 44
Intervista al colonnello Michel Goya, l’uomo che spiega ai francesi cosa accade in Ucraina
Colonnello, scrittore, esperto militare, storico, soldato e personaggio televisivo. Michel Goya è tutte queste cose assieme e, forse per questo, dall’inizio dell’invasione russa è diventato il punto di riferimento di chi vuole capire cosa accade in Ucraina in pochi minuti. Ogni pomeriggio è su Bfm Tv, il principale canale di all news francese, per spiegare la dinamica del conflitto. Lo hanno ingaggiato in esclusiva dopo pochi giorni, consapevoli di aver bisogno di un esperto per contestualizzare gli eventi, carta geografica alla mano. La sua passione per il rugby è evidente dal suo fisico impostato, che ricorda quello dei piloni, i giocatori che tengono il centro dello schieramento, e l’appartenenza all’arma riconoscibile dall’àncora della marina militare appuntata sul bavero della giacca.
Figlio di un immigrato spagnolo morto un mese dopo la sua nascita nel 1962 e di un’operaia tessile, Goya entra nell’esercito in un reparto di fanteria meccanizzata come sottufficiale, poi sale di grado vincendo il concorso interno per ufficiali e partecipa a diverse missioni operative con l’esercito. Ruanda, Centrafrica e soprattutto Jugoslavia, dove riceve il battesimo del fuoco durante l’assedio di Sarajevo nel 1992, quando la città bosniaca è accerchiata dalle forze serbe e i paesi della Nato intervengono per evitare un genocidio: «Sarajevo è una città circondata da alture, il che dava la possibilità ai serbi di bombardare da posizioni ottimali. Quando cadevano 200 obici, nei rendiconti classificavamo la come giornata come “calma”, restavamo rintanati nelle case e uscivamo pochissimo, perché farlo significava essere costantemente sotto il tiro dei cecchini che avevano l’ordine di abbattere ogni essere vivente, soldati, anziani, donne, bambini e anche animali», racconta. Non per nulla la strada principale della città, in quei quattro anni di assedio, era stata ribattezzata Sniper Alley: un ambiente ostile non troppo lontano da quello ucraino.
A quarant’anni decide di cogliere l’opportunità data dall’esercito ai profili desiderosi di formarsi: si laurea in storia alla Sorbona, poi scrive una tesi di dottorato sulla prima guerra mondiale, unendo l’esperienza sul campo con le nuove competenze acquisite. Continua a lavorare per l’esercito redigendo, durante la guerra in Iraq, quelle che in gergo vengono definite retex, retour d’expérience, delle analisi sui conflitti in corso destinate allo Stato maggiore. Integra lo staff del Capo di Stato maggiore come consigliere, per poi lasciare l’esercito nel 2015 col grado di colonnello. Prima della grande notorietà televisiva, Goya era già una star nel piccolo mondo di appassionati di storia militare e di geopolitica, grazie alle analisi dei conflitti in corso pubblicate sul suo blog la voie de l’épée, i libri sulla sua esperienza di soldato, e i commenti ai grandi film di guerra e di fantascienza. La sua presenza costante e intelligente su Twitter lo rende un porto sicuro per i giornalisti che cercano informazioni dettagliate sulla guerra: all’inizio del conflitto in Ucraina pubblicava una lunga spiegazione quotidiana che riassumeva l’equilibrio delle forze in campo, ripresa dalla rivista Le Grand Continent. Quando lo vedo seduto al giardino del bar Les 3 Présidents, dove mi ha dato appuntamento per la nostra intervista, so che avremo molto di cui parlare. Ci troviamo nella zona sud della capitale, a pochi passi dal ministero della Difesa e soprattutto dagli studi di Bfm Tv, dove il colonnello passerà la sua serata. Iniziamo a discutere proprio di questo, della guerra, e di come mai gli europei non credevano fosse possibile, mentre gli americani avevano previsto tutto.
Perché?
Bisogna ammettere quando si sbaglia, io stesso ero molto scettico, ma non perché non ci fossero gli indizi. L’arrivo alla frontiera di banche del sangue e ospedali da campo era indicativo, perché si tratta di mezzi molto preziosi in quanto deperibili, non si utilizzano nelle esercitazioni. Malgrado questo, un’offensiva mi appariva irrazionale e controproducente, come effettivamente stiamo osservando sul piano militare e politico. Voglio dire, i russi non hanno raggiunto alcun obiettivo e hanno spinto paesi tradizionalmente neutrali a chiedere di aderire alla Nato. È un disastro per Mosca.
All’inizio dell’offensiva, il 26 febbraio, ci si attendeva una vittoria relativamente rapida da parte russa. Oggi stiamo commentando la grande fragilità delle loro forze armate. Come mai abbiamo sovrastimato la loro capacità?
È molto difficile prevedere cosa accade in un conflitto armato, sarebbe come prevedere il risultato di una partita di calcio con tre anni di anticipo tra due squadre che in questo periodo non giocano nemmeno una partita ufficiale. Complicato, no? La guerra è così, non ci si può preparare fino in fondo, e per quanto le esercitazioni ci dicano qualcosa sulle capacità delle parti, il vero scontro è un’altra cosa, influenzato da mille variabili. D’altro canto le guerre non durano mai quanto chi le ha scatenate aveva previsto, in genere durano almeno il doppio. Il motivo è che sono imprevedibili, a meno che non si riesca a raggiungere il proprio obiettivo in pochissimo tempo. Non è questo il caso.
È possibile che il conflitto entri in una fase di stallo, e che la dinamica si avvicini in qualche modo a quella della prima guerra mondiale, in cui una guerra di movimento che doveva durare poche settimane si trasformò in una guerra di trincea in cui il fronte era fisso per mesi e si combatteva per pochi metri di terreno?
Sì, sembra così, e lo si vede dalla grandezza delle operazioni che descriviamo. Prima parlavamo della battaglia di Kiev, della battaglia di Kharkiv, di grandi assedi per conquistare grandi centri; adesso la scala si è ridotta, si combatte per il controllo di piccoli paesini: si guadagnano o si perdono cento metri, mentre all’inizio dell’offensiva la Russia guadagnava anche dieci chilometri al giorno. I russi hanno provato a conquistare il paese impiegando quasi tutte le forze contemporaneamente ma così facendo hanno aperto molteplici fronti: questa strategia è fallita e adesso sono disposti male, stanno provando a concentrarsi sul Donbass, vicino al loro confine, ma questo implica indebolirsi altrove. La dinamica, inoltre, sembra invertirsi: la Russia non ha grandi modi di rafforzarsi, mentre gli ucraini sì, grazie ai nostri materiali e alla capacità di mobilitare le riserve. L’Ucraina è un paese in guerra, la Russia non lo è.
Immagino che le sue giornate siano molto cambiate con l’inizio dell’offensiva, e che essere ingaggiato da Bfm Tv per spiegare quotidianamente gli avvenimenti le abbia cambiate ancor di più.
La notorietà e la presenza in televisione non sono nuove per me. Ho lasciato l’esercito nel 2015, e sono subito stato molto richiesto dai media: quell’anno ho calcolato di aver ricevuto una richiesta di intervista ogni 20 ore, a causa dei ripetuti attentati terroristici e delle operazioni internazionali della Francia, in Africa e Medio Oriente. Ho coltivato i rapporti con la stampa anche prima di lasciare l’esercito: sono abituato a esprimermi e a porre critiche costruttive quando ritengo ce ne sia bisogno, e questo non piace all’istituzione militare. Il fatto di essere conosciuto mi “proteggeva” da eventuali sanzioni. Nonostante questo, essere in televisione tutti i giorni per commentare un evento in corso è una piccola rivoluzione per me.
In che modo ci si adatta al linguaggio televisivo?
Bisogna mettersi nei panni di chi non sa quasi nulla di questioni militari, quindi essere semplice e non dare nulla per scontato. Questo però l’avevo già imparato negli anni, la novità è adattarsi al formato e al ritmo di una rete all news: vado in onda alle 16.50 e finisco a mezzanotte, intervenendo in diversi programmi e fasce orarie. Il difficile è abituarsi alla ripetitività: chi ha guardato la tv alle 17 non sarà il mio telespettatore delle 18. Anche fisicamente è stancante: fino a qualche giorno fa ero in onda 7 giorni su 7, adesso ho recuperato il weekend ma è comunque un ritmo molto intenso. E ho meno tempo per approfondire e capire cosa sta accadendo.
Che fonti utilizza per capirlo? Ha accesso a informazioni riservate o a canali privilegiati grazie alla carriera nell’esercito?
No, anzi, ho pochi contatti con le forze armate. Lavoro moltissimo con le fonti pubbliche, quelle ucraine, quelle russe, i lavori degli analisti e anche i briefing degli americani e dei britannici, che sono pubblici e molto accurati.
Quanto aiuta l’esperienza diretta nel suo lavoro per Bfm Tv?
Direi che aiutano due aspetti della carriera militare molto diversi tra loro. Il primo è tecnico: qualunque militare, con una carta geografica davanti a sé, è in grado di spiegare e interpretare cosa accade. Capisce come ragiona lo Stato maggiore russo, come risponde quello ucraino e perché decidono di compiere determinate scelte, perché attaccano da nord e non da sud, come mai si utilizza questo sistema d’arma. È un mestiere e si impara. Faccio un esempio. I russi hanno bombardato una stazione ferroviaria, uccidendo circa cinquanta civili e ferendone un centinaio, e dopo poco, vedendo le immagini, ci siamo resi conto che il missile utilizzato era esploso in aria, in pieno giorno, senza penetrare all’interno della struttura. I danni materiali erano relativamente lievi, se avessero utilizzato artiglieria pesante avrebbero distrutto l’infrastruttura. Tutti questi indizi ci dicono che molto probabilmente l’obiettivo non era la stazione, ma i civili. L’esperto in tv serve a spiegare questo. Aver vissuto in prima persona l’assedio di Sarajevo è molto utile per me oggi, perché so che cosa vuol dire trovarsi sotto bombardamento e dover rispondere a un nemico che sta distruggendo tutto l’ambiente circostante. Un’altra cosa che abbiamo spiegato fin da subito è che, per quanto spettacolare, il bombardamento aereo è secondario, ciò che conta in questi casi è l’artiglieria: sono i cannoni che distruggono le città.
Qual è il secondo aspetto?
Spiegare la guerra a un pubblico che non ha alcuna idea di cosa sia. Non è un’esperienza normale trovarsi in mezzo a una battaglia, proviamo a farlo capire.
In che senso?
Gli individui mutano davanti alla paura e allo stress. Cambia tutto. Se un militare addestrato si esercita al poligono di tiro è in grado di centrare un bersaglio a 200 metri con un colpo, due se è disturbato da qualche variabile esterna. In una situazione di scontro a fuoco reale servono almeno cinque colpi, tutto è meno efficace e più complesso.
Pensavo fosse in qualche modo il contrario, che come per gli atleti di alto livello la competizione e l’istinto di sopravvivenza migliorassero le capacità.
Possono avvenire entrambe le cose: o si diventa “supereroi” o ci si paralizza. L’amigdala posizionata al centro del cervello dà l’allerta perché prende coscienza del pericolo grazie alla memoria, che mette insieme tutti gli indizi e registra la minaccia. A quel punto la risposta incosciente è un’accelerazione dei battiti cardiaci, quella cosciente è che l’addestramento rende il soldato capace di analizzare rapidamente la situazione in cui si trova, e di capire se può farvi fronte o meno. Se sì, si trasforma in una sorta di supereroe, altrimenti si paralizza, e per lui la situazione diventa particolarmente pericolosa: a partire da 140 battiti al minuto, la capacità di giudizio diminuisce e andando oltre si rischia l’arresto cardiaco. Così se non ci si paralizza, il meccanismo determinato dalla paura è l’imitazione: si obbedisce agli ordini e si imitano quelli che sono accanto a sé. Infine, si sviluppa uno dei sensi più importanti in battaglia, che non è la vista, ma l’udito: la battaglia è quasi sempre contro un nemico invisibile, di fatto la guerra moderna è una guerra tra ciechi.
Cioè?
L’udito è molto importante in un teatro di guerra, soprattutto in un assedio di un ambiente urbano: il proiettile è un oggetto supersonico, si sposta più velocemente del suono, quando passa accanto fa un grande “bang”, un rumore simile a quello di un aereo, soltanto dopo pochi istanti arriva il suono dell’esplosione dello sparo. Faccio un esempio semplice: la velocità del suono dello sparo è circa di 300 metri al secondo, quindi se dopo il primo “bang” passano due secondi vuol dire che il nemico è a circa 600 metri. Il rumore che conta è il secondo, non il primo, che ci permette di calcolare quanto è distante chi sta sparando e dove è posizionato. Il mio lavoro a Sarajevo, un teatro che possiamo comparare con quello ucraino, era in gran parte questo: proteggere il mio reggimento dagli obici e dai cecchini, individuare il nemico e rispondere grazie ad armi di grosso calibro con la capacità di penetrare i muri, perché il nemico non sarà mai visibile se non in rarissime occasioni. Si va a tentativi e ogni tanto si colpisce l’obiettivo. Ripeto, è una guerra tra ciechi.
Cosa sta insegnando questa guerra agli eserciti europei? Eravamo convinti che le operazioni militari non presupponessero più il soldato e il carro armato, che questa configurazione fosse antica, novecentesca, che la guerra moderna fosse ormai nei cieli, nel mare e nel cyberspazio.
Tutto questo è importante, ma in un conflitto ad alta intensità sul terreno, il 90% delle operazioni è condotto dalla fanteria. La situazione mi colpisce molto: di fatto stiamo assistendo a una guerra tra due eserciti del Patto di Varsavia, il materiale utilizzato risale in gran parte agli anni ’70 e ’80, ed è per noi molto familiare, perché in quegli anni tutto l’addestramento era impostato per affrontare questo tipo di mezzi e tattiche per respingere un’invasione sovietica. Ho ripreso in mano dei manuali dell’epoca e vedo gli stessi materiali. La verità è che dopo la guerra fredda gli eserciti sono rimasti simili, anche gli americani hanno molti materiali di quell’epoca.

Qual è invece una novità di questo conflitto?
I droni e i missili Javelin anticarro, con dei colpi che seguono una traiettoria ad arco e colpiscono i blindati dall’alto verso il basso. Sono particolarmente efficaci contro i mezzi russi, che sono costruiti per essere piccoli in modo da offrire un bersaglio ristretto. Tuttavia, questa configurazione li rende vulnerabili, perché per diminuire le dimensioni gli ingegneri sono costretti a montare i proiettili al centro, sotto l’equipaggio, mentre i carri occidentali solitamente montano il rifornimento di munizioni nella parte posteriore. Per questo vediamo moltissime carcasse di carri russi con la torretta sventrata: se colpiti, la loro configurazione li fa esplodere dall’interno.
L’esercito francese sarebbe capace di tenere testa a un’invasione di terra russa?
L’esercito francese ha una buona capacità di intervento sul breve periodo, ma non possiamo sostenere guerre lunghe e troppo importanti in volume. In Ucraina sarebbe durato una settimana, siamo troppo pochi e con pochi mezzi. L’esercito ha una consegna molto chiara: essere capace di dispiegare 15mila uomini ben equipaggiati in breve tempo e in qualunque teatro operativo del mondo. Per fare un paragone, nel nord del Donbass si affrontano 25mila ucraini e circa 30mila russi: potremmo essere molto efficaci in quella zona geografica, ma nel resto del paese ci sarebbe il vuoto. Nei cieli e sul mare saremmo probabilmente più competitivi ed efficaci, ma sul suolo molto meno. E questo è un problema anche per gli ucraini, che possono contare sugli europei fino a un certo punto: non possediamo grandi quantità di munizioni e di equipaggiamento, la nostra capacità di aiuto è limitata. L’esercito francese si sta dotando di un nuovo missile anticarro, e ne ha ordinati circa 1900 in totale che saranno consegnati in diversi anni. In Ucraina questa quantità basta sì e no per una settimana. È una questione di scala.