L’invasione russa sospende la campagna francese - Marat n. 33
La decisione di Vladimir Putin ha oscurato il dibattito elettorale, ormai monopolizzato da ciò che accade a est. Può essere un grande vantaggio per Macron, e un problema per i suoi avversari
Sabato mattina, ore 7.30: Emmanuel Macron inaugura il Salone dell’Agricoltura, la più importante manifestazione dedicata ai prodotti alimentari francesi e considerata uno dei momenti più importanti della campagna elettorale. Almeno, in tempi di pace. Il presidente, che avrebbe dovuto trascorrere diverse ore tra gli agricoltori, si è limitato a un breve saluto per tornare subito all’Eliseo, da dove segue gli sviluppi della guerra: «La guerra sta tornando in Europa e ci troviamo in un contesto serio e senza precedenti. Non manterrò l’agenda prevista e vi lascerò in compagnia del primo ministro e del ministro dell’Agricoltura», ha spiegato Macron, prima di aggiungere che «questa crisi durerà, questa guerra durerà e l’insieme di queste crisi avrà conseguenze durature».
Come prevedibile, l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto un impatto deflagrante sulla campagna presidenziale, mettendola di fatto in pausa. I principali candidati hanno deciso di tenere ugualmente le iniziative previste nel weekend, malgrado l’attenzione dei media sia completamente altrove. Non possono fare diversamente, anche se i comizi e le riunioni pubbliche appaiono stonate. Soltanto Marine Le Pen ha deciso di sospendere tutte le sue attività, anche se per motivi diversi dalla guerra in Ucraina: non ha ancora raccolto tutte le firme necessarie a presentarsi ufficialmente, e la scadenza del 4 marzo è vicina.
Per Emmanuel Macron il momento è relativamente delicato. Il presidente non è ancora ufficialmente candidato, e non può più rimandare: entro venerdì prossimo dovrà dichiarare la sua disponibilità al Consiglio Costituzionale, che alle 18 dello stesso giorno annuncerà chi ha raggiunto le 500 firme di eletti locali necessarie a presentarsi. Difficile che Macron rinunci a presentare il suo progetto e lasci ai giudici costituzionali l’onere di ufficializzare la sua candidatura, ma restano ancora poco chiare le modalità con cui deciderà di annunciare la decisione ai francesi. Con un’intervista televisiva? Con un’intervista alla stampa nazionale o regionale? Con un video diffuso sui social e tramite i media tradizionali? O addirittura in modo poco solenne, rispondendo “casualmente” a una domanda, come fece Jacques Chirac nel 2002?
Al di là di questo passaggio, scontato e sicuramente meno rilevante visto il contesto internazionale, si pone anche la questione di come fare campagna elettorale. L’équipe di Macron ha fatto filtrare alla stampa che il 5 marzo il presidente terrà un grande comizio a Marsiglia di fronte a circa 15 mila persone: ma è possibile immaginare un discorso sul futuro della Francia mentre a Kiev infuriano i combattimenti e l’esercito francese, insieme agli alleati occidentali, rifornisce di armi gli ucraini?
In questo momento Macron è prigioniero della sua strategia: aveva spiegato che non si sarebbe candidato finché le due crisi, quella sanitaria e quella ucraina, non fossero state sotto controllo. Se la prima lo è, l’altra è esplosa. Ho chiesto a Mathieu Gallard, sondaggista dell’istituto Ipsos e osservatore delle dinamiche dell’opinione pubblica francese, se la crisi internazionale costituisca un vantaggio o uno svantaggio per il presidente uscente. La sua risposta è chiara: «Durante le crisi, l’elettorato ha un riflesso naturale, si stringe intorno a chi è al potere. Macron ne beneficerà, è inevitabile, e può anche contare su avversari che, dalle nostre inchieste, non sono ritenuti al suo livello: nessuno appare più credibile del presidente, che secondo i francesi ha gestito piuttosto bene le ultime due crisi, quella dei gilet gialli e quella sanitaria. Certo, esiste anche un’opposizione molto forte di una parte dell’elettorato, ma per ora non trova sbocchi politici».
A questo bisogna aggiungere che la campagna non è praticamente mai iniziata. Nessun candidato è riuscito a imporre i propri temi, sempre superati dagli eventi, prima dalla variante Omicron e poi dalla guerra in Ucraina. La situazione è cristallizzata, e con poche settimane a disposizione è difficile instaurare una dinamica favorevole, spiega Gallard: «Nel 2017 la progressione di Jean-Luc Mélenchon è stata notevole. Ma il candidato ha avuto bisogno di più di un mese per recuperare terreno: se la campagna dura, di fatto, dieci giorni, recuperare 5 o 6 punti percentuali diventa difficilissimo, per lui come per gli altri. Non possiamo dire che sicuramente non succederà, ma muovere l’opinione pubblica in così poco tempo è complicato».
Inoltre, per Jean-Luc Mélenchon, Marine Le Pen ed Éric Zemmour, la crisi ucraina si è trasformata rapidamente in un problema politico. I tre candidati hanno espresso posizioni filorusse molto marcate nelle scorse settimane, minimizzando il rischio di invasione russa e anzi, accusando gli Stati Uniti e la Nato di provocarla. Dopo l’ingresso dei carri russi in Ucraina, Zemmour ha per esempio pubblicato un succinto comunicato per condannare la scelta di Mosca, ma poco dopo ha registrato un video per ribadire i concetti difesi in questi ultimi mesi.
Dopo aver spiegato che la crisi è stata causata «dall’espansione ininterrotta della Nato», Zemmour ha invitato il presidente Macron a risolvere la situazione andando immediatamente «a Mosca e a Kiev per parlare con Putin e Zelensky. Dopo averli convinti, bisogna organizzare una conferenza internazionale a Parigi e proporre un trattato che metterà nero su bianco la fine dell’espansione della Nato a est». Senza contare la sua ammirazione personale per Vladimir Putin, molto simile a quella di Matteo Salvini: «Il mio sogno è un Putin francese», disse all’Opinion nel 2018.
Marine Le Pen è, se possibile, ancora più compromessa con il Cremlino. Non soltanto nelle ultime settimane la candidata ha ripreso (come Zemmour), tutti gli elementi di propaganda di Mosca per giustificare l’escalation, che sarebbe causata «dall’espansionismo della Nato», ma il suo partito ha legittimato in ogni modo la politica estera di Vladimir Putin negli ultimi anni, giustificando l’annessione russa della Crimea nel 2014: «Sull’Ucraina noi e Mosca la vediamo allo stesso modo», aveva detto Marine Le Pen all’epoca. Sempre nel 2014, il Front national ottenne un prestito di 9 milioni di euro da una banca russa, la First Czech Russian Bank. Un debito che ha dovuto rinegoziare, perché incapace di rimborsarlo nei termini, e che sta tuttora pagando. Domenica mattina, in un intervento pubblicato dal Journal du Dimanche, la leader del Rassemblement national ha, ancora una volta, giustificato l’invasione russa: «La situazione drammatica in Ucraina si spiega con l’atteggiamento di potenze non europee, che hanno negato le legittime preoccupazioni della Russia».
Le posizioni antiamericane di Jean-Luc Mélenchon sono note, così come la sua critica alla politica estera francese, troppo allineata alla Nato, da cui il leader della France insoumise vorrebbe uscire. Lo scorso 30 gennaio su France 5, intervistato sulla crisi in corso, Mélenchon ha attaccato Macron per il suo tentativo di mediazione, e ricordato che sono «gli Stati Uniti ad essere in posizione aggressiva e non la Russia». La realtà si è incaricata di smentirlo.
Secondo Gallard, queste posizioni filorusse sono senz’altro un problema: «In tempi normali, la politica estera conta molto poco. Ma in questo contesto può essere un grande problema, perché costituisce un’arma a doppio taglio: probabilmente le persone che vogliono votare per i candidati che esprimono queste posizioni sono ancora più convinte, quindi assisteremo a un rafforzamento della base elettorale già acquisita. Tuttavia, il sentimento di rigetto dell’altra parte dell’elettorato, molto radicato contro questi tre candidati, aumenterà, e non è per loro un fattore positivo: in campagna elettorale si cerca di convincere gli indecisi, soprattutto in una situazione in cui quattro candidati (Zemmour, Mélenchon, Le Pen e Pécresse) si giocano l’accesso al secondo turno in pochissimi punti percentuali».
Indirettamente, anche la campagna di Valérie Pécresse deve fare i conti con la situazione internazionale. La candidata dei Républicains, probabilmente la più competitiva al secondo turno, ha provato in tutti i modi a instaurare una sfida a distanza con Emmanuel Macron, senza riuscirci. Adesso per lei è ancora più difficile, come ha mostrato il suo comizio di sabato, organizzato a Caen, e impostato tutto contro Mélenchon, Le Pen, e Zemmour, «squalificati» dalle loro posizioni filorusse. Difficile criticare Macron, in questa situazione.
C’è da sottolineare che senza una vera e propria campagna elettorale, chiunque sarà eletto potrebbe trovarsi in una situazione complicata dal punto di vista dell’opinione pubblica. È difficile aspettarsi la tradizionale luna di miele di inizio mandato, sostiene Gallard: «La Francia è un paese che attraversa una fase di tensione, e le elezioni presidenziali sono un momento in cui si discute di come risolverla e poi si decide. Se i francesi hanno l’impressione che non ci sia stato un dibattito potrebbero poi rigettare chi è eletto. Non sarà semplice gestire il dibattito pubblico da maggio in poi».
Se questo è vero, è anche probabile che Macron, a questo punto favoritissimo, potrebbe applicare la famosa filosofia di San Bernardo: «Vedere tutto, sopportare molto, correggere una cosa alla volta».
Consigli di lettura e fonti
La campagna elettorale è in pausa, titola Libération, il Figaro ha raccolto nella sua newsletter di venerdì, le reazioni degli staff di tutti i candidati, alle prese con una situazione inedita.
Il Monde spiega perché Zemmour e Le Pen sono in difficoltà a causa del loro fascino per Vladimir Putin. France Inter ha raccolto tutte le dichiarazioni filorusse, antiamericane o ambigue di Jean-Luc Mélenchon, mentre Mediapart ha analizzato la sua grande contraddizione.
La grande offensiva di Pécresse contro Zemmour, aiutata dalle sue posizioni filorusse, raccontata da Les Echos. Perché Macron difficilmente riuscirà a fare campagna elettorale, secondo il Figaro.