Marine Le Pen può vincere - Marat n. 39
La vittoria del Rassemblement national era impossibile nel 2017, oggi resta improbabile, ma questo cambio di prospettiva è di per sé rivoluzionario. Come ci siamo arrivati?
L’aria che si respira al Palais des Expositions di Perpignan è diversa dal solito, è più frizzante: militanti e simpatizzanti venuti ad assistere all’ultimo comizio di Marine Le Pen sembrano convinti che stavolta la vittoria sia una concreta possibilità, che finalmente il Rassemblement national sia riuscito a trasformarsi in un partito capace di governare il paese, e che i giorni della semplice testimonianza, del partecipare senza voler davvero vincere, siano finalmente alle spalle. Alla fine di una campagna essenziale, condotta tra i mercati rionali, con pochi e ristretti comizi, qualche grande intervista televisiva e molti scambi diretti con i francesi, Marine Le Pen arriva sul palco blu, con una grande M sullo sfondo e un piccolo podio, bianco, che da lontano risulta quasi invisibile a causa delle centinaia di bandiere sollevate dalla folla. La musica che la introduce lotta con le urla del pubblico, e Marine Le Pen dopo pochi minuti scandisce lo slogan delle ultime settimane: «Se il popolo vota, il popolo vince!».
Per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica francese, non è più possibile escludere una vittoria del Rassemblement national. Lo dicono i sondaggi, che al secondo turno ipotizzano uno scarto strettissimo con Emmanuel Macron, al quale viene attribuita una possibile vittoria con un risultato tra il 52% e il 53%, un dato inimmaginabile fino a poche settimane fa; lo dicono i tratti di immagine della candidata, capace di apparire meno estremista, più vicina alle reali preoccupazioni dei francesi, e soprattutto in grado di attrarre elettori che al primo turno scelgono altri candidati, come Éric Zemmour e Jean-Luc Mélenchon, ma che al secondo dichiarano di essere disponibili a votare per lei; è evidente nella strategia elettorale, incentrata sull’ascolto dei cittadini, sull’ansia per la perdita di potere d’acquisto, e sulla capacità di “nascondere” il programma, ancora molto estremista, per mostrare di più se stessa, la sua maturazione come leader e i suoi cambiamenti. Come se il silenzio sulle proposte concrete avesse avuto un effetto rassicurante sugli elettori. Infine, lo dice persino l’entourage di Emmanuel Macron, che ha impostato tutta l’ultima settimana di campagna elettorale sul pericolo dell’estrema destra, sui rischi di un programma «razzista», e sulla necessità di evitare che il paese piombi nel caos.
Le categorie con cui si è letta la politica francese fino al 2017 sono completamente saltate: non ci sono più destra e sinistra, malgrado il tentativo di Éric Zemmour e Jean-Luc Mélenchon di rivitalizzare un bipolarismo apparentemente svanito. Lo scontro, oggi, è tra Emmanuel Macron, che rappresenta un blocco elitario, e Marine Le Pen, campionessa di un blocco popolare; la sfida è tra elettorati al loro interno molto omogenei dal punto di vista sociale, che si muovono in base alla propria appartenenza di classe più che secondo le proprie idee, che contano sempre meno.
La differenza, rispetto al grandissimo comizio di Macron tenuto a Parigi, è abilmente messa in scena. Il palazzetto dello sport che ospita Marine Le Pen ha un’architettura sgraziata, il cemento dei muri costruiti nel 1984 è rovinato, l’ingresso organizzato in modo semplice, con un piccolo banchetto che vende gadget e altro materiale per il finanziamento del partito. Anche il profilo dei partecipanti è profondamente diverso da quello macronista: siamo in una piccola città di provincia sui Pirenei, ad applaudire Marine Le Pen sono accorsi i tipici elettori del Rassemblement national, operai, impiegati, francesi che sentono di aver perso la sfida della globalizzazione.
Se lo staff di Marine Le Pen ripeteva ai giornalisti che la candidata è «molto soddisfatta della campagna», ma consapevole che negli ultimi giorni può succedere molto a causa dell’alto tasso di indecisi, e quindi la parola d’ordine è «piano con l’entusiasmo», molti pesi massimi del partito riuscivano a malapena a trattenere l’euforia per un risultato, la qualificazione al secondo turno, che non soltanto sembra scontato, ma può addirittura rappresentare un trampolino di lancio per la vittoria finale: «A questo punto l’ambizione deve essere raggiungere Macron, fare un risultato simile a lui sarebbe un grande segnale», mi ha detto Jordan Bardella, presidente del Rassemblement national e delfino di Marine Le Pen. L’idea dello stato maggiore lepenista è in qualche modo stravolgere la narrazione del 2017: trasformare il ballottaggio in un referendum pro o contro Macron, contando sul rigetto che una parte di elettorato cova nei confronti del presidente, e sul poco interesse della parte restante che, a causa della banalizzazione della candidata, non si mobiliterà per votare contro di lei.
Tuttavia, è molto probabile che durante le due settimane che dividono il primo dal secondo turno i limiti del suo programma emergeranno. Marine Le Pen è apparsa meno estremista, più credibile anche grazie alle posizioni di Éric Zemmour, che ha contribuito sensibilmente a migliorare i suoi tratti di immagine. Tuttavia, le sue proposte restano quelle di un partito di estrema destra, e per essere applicate richiedono dei cambiamenti profondi della costituzione e dei trattati internazionali firmati dalla Francia.
Ecco un breve elenco. L’inserimento della preferenza nazionale in costituzione, che apre la porta a politiche esplicitamente discriminatore per i cittadini non francesi (in particolare nel mondo del lavoro, nei criteri di assegnazione delle case popolari, nell’accesso alla sanità e all’amministrazione pubblica). Il divieto di indossare il velo negli spazi pubblici. La volontà di sospendere la libera circolazione di persone e merci tra la Francia e il resto dell’Unione europea (oltre alla rinegoziazione dei trattati e alla diminuzione unilaterale di 5 miliardi di euro riguardo la contribuzione della Francia al bilancio Ue). L’abbandono del comando integrato della Nato. O ancora, l’introduzione del reato di distruzione dei beni pubblici applicabile a chiunque abbia preso parte a una manifestazione poi degenerata in scontri con la polizia e violenza contro la proprietà (il solo fatto di essere presenti costituirebbe reato). Tutte proposte che sarebbero al centro di un eventuale dibattito contro Emmanuel Macron, che potrebbe essere un punto di svolta verso il secondo turno, data la debolezza della candidata nei confronti diretti, squalificata dalla sua prestazione televisiva disastrosa nel 2017.
Ho chiesto quindi al suo entourage se la candidata si è preparata in modo specifico per il dibattito televisivo, e la risposta è stata un po’ evasiva: «Lo prepariamo da cinque anni lavorando sulle nostre proposte», mi ha risposto Bardella, che si è detto convinto della «grande importanza» che avrà il dibattito sul risultato finale. Infine, il rapporto con la Russia di Vladimir Putin sarà inevitabilmente un punto debole per la candidata del Rassemblement national. Al primo turno Le Pen non è stata danneggiata dalla sua ambiguità verso Mosca per due motivi: il primo è che al suo elettorato la guerra in Ucraina interessa molto poco, così come il ruolo della Francia nel mondo, chi vota per Marine Le Pen è interessato al suo potere d’acquisto e alla lotta contro l’immigrazione; il secondo è che la candidata è stata molto abile a condannare l’invasione immediatamente e passare oltre, senza perdere tempo in proposte o commenti su quanto stesse accadendo.
Alla vigilia del voto, oltre all’ascesa di Marine Le Pen, ecco tre elementi da osservare.
1 - Le difficoltà di Macron
Il presidente ha probabilmente sottovalutato la necessità di partecipare attivamente alla campagna, si è mosso in ritardo e ha dato l’impressione di considerare scontata la sua rielezione, soprattutto dopo i sondaggi “drogati” dalla guerra in Ucraina. La scelta di sottrarsi ai dibattiti e di impostare tutta l’ultima settimana sul pericolo dell’estrema destra si è rivelato un errore strategico: Macron è stato eletto proprio in questo modo nel 2017, e replicare lo schema «votate per me o sarà il caos» fin dal primo turno ha dato l’impressione di un candidato senza un vero e proprio progetto. Al contrario, Macron ha un bilancio da difendere, ha mantenuto gran parte delle sue promesse elettorali, e la gestione delle varie crisi che hanno segnato il suo mandato è stata apprezzata dalla maggioranza dei francesi. Ma mettere tutto ciò in evidenza è stato per lui difficile.
La dinamica nei sondaggi è a lui sfavorevole, anche se negli ultimi due giorni le intenzioni di voto sembrano cristallizzate e il presidente è stimato attorno al 26%, un risultato migliore di quello del 2017 e più robusto rispetto alla media dei sondaggi precedenti alla crisi ucraina. Il rischio, per Macron, è che mentre le sue intenzioni di voto restano stabili, la dinamica positiva di Le Pen continui, portando addirittura a un sorpasso. In questo caso il secondo turno sarebbe ancora più complesso, e la vittoria tutta da conquistare, anche se questa configurazione non era imprevedibile: per tutto il mandato Macron ha legittimato Marine Le Pen come unica oppositrice, ha teorizzato lo scontro tra una visione aperta e progressista contro una chiusa e sovranista, e ha legittimato la stampa di estrema destra accordando una lunga intervista a Valeurs actuelles, settimanale oggi schierato in modo chiaro per Éric Zemmour. A causa di questi comportamenti, alcuni dicono che il presidente abbia giocato col fuoco, domenica sera vedremo quanto l’incendio gli sia sfuggito di mano.
2 - Mélenchon può davvero arrivare al secondo turno? E l’astensione quanto peserà?
La dinamica a lui favorevole osservata nell’ultimo mese si è stabilizzata: secondo i sondaggi, il leader della France Insoumise ha raggiunto il suo massimo potenziale, che è elevato ma non abbastanza per superare Marine Le Pen ed Emmanuel Macron. Il suo risultato può cambiare in due casi. Il primo è l’astensione: le categorie dove il voto per Jean-Luc Mélenchon è più elevato sono i giovani (secondo l’ultimo grande sondaggio Ipsos è il primo candidato scelto dai giovani tra i 18-24 anni, al 26%, e il secondo candidato scelto tra i 25-34 anni, al 24%) e ottiene il suo miglior risultato tra impiegati e professionisti intermedi. Il problema è che queste categorie professionali e fasce d’età votano meno rispetto ad altre (ai pensionati per esempio, dove Macron è al 33% con una punta del 35% tra quelli con più di 70 anni). Con un’astensione mediamente alta, Mélenchon è quindi svantaggiato, ma se chi oggi dichiara di non andare a votare alla fine decide di farlo la situazione è inversa. Per Marine Le Pen il quadro è simile: la candidata del Rassemblement national è prima nella fascia d’età 25-34 anni (26%), e fortissima tra gli operai (38%, nessun altro candidato raggiunge una percentuale così alta in una sola categoria professionale), due tra le fasce più tendenti all’astensione. Non è un caso quindi che le curve dei due candidati siano molto simili, salgono insieme e scendono insieme.
Non sappiamo, inoltre, come si comporteranno gli elettori degli altri candidati della sinistra. Chi dichiara di voler votare per Fabien Roussel del Partito Comunista (3%) o per Yannick Jadot degli ecologisti (6%) è ancora molto indeciso: addirittura il 42% di chi dichiara di voler votare per Jadot aggiunge che la sua scelta non è ancora definitiva, la percentuale più elevata di tutti i candidati. Se la dinamica del “voto utile” diventerà rilevante tra sabato e domenica, il risultato di Mélenchon potrebbe cambiare di molto.
3 - Chi arriva prima tra Zemmour e Pécresse?
Di fatto, giocano entrambi un altro campionato.
Éric Zemmour ha ottenuto due grandi risultati per se stesso in questa campagna elettorale. È l’unico candidato ad avere una base di militanti molto convinta di votarlo, capace di organizzare in poche ore comizi partecipatissimi (circa 30mila persone al Trocadéro a marzo, più di 10mila a Villepinte a dicembre) e tra i 5 candidati maggiori è quello che più di tutti convince l’elettorato per le sue idee più che per la fiducia che ispira. Il problema è che questo capitale rischia di evaporare la sera di domenica, se dovesse arrivare quinto, dietro Valérie Pécresse, e sotto il 10% dei voti. Per Zemmour, una parte della sfida comincia proprio lunedì: riuscirà a ricostruire la destra intorno alla sua personalità, anche in vista delle elezioni legislative di giugno? È una sfida molto complessa, e che un risultato deludente non contribuirà a rendere meno difficile.
Per Valérie Pécresse il discorso è diverso, perché qualunque sia il suo posizionamento finale, verrà ricordata come la candidata che ha portato la sua famiglia politica attorno, se non addirittura più in basso, alla barra psicologica del 10% dopo una campagna scialba, poco chiara e senza entusiasmo. La sua carriera politica nazionale rischia quindi di terminare, e il suo partito di esplodere in mille pezzi, soprattutto se Zemmour dovesse arrivarle davanti.
Consigli di lettura e fonti
Il programma di Marine Le Pen resta di estrema destra secondo Le Monde; questo primo turno è stato anche il palcoscenico di primarie di fatto tra Le Pen e Zemmour, scrive l’Opinion, mentre Libération sostiene che la candidata abbia parlato di se stessa per non parlare di tutto il resto.
Per l’Opinion, la ricomposizione politica cominciata nel 2017 non è ancora finita, mentre Les Echos analizza il possibile comportamento degli elettori, stretti tra la fine del mondo e la fine del mese.
La nuova “moderata” Marine Le Pen che avevo raccontato a febbraio, il bilancio economico di Macron, di cui ho scritto qualche settimana fa, i motivi per cui Mélenchon non può ancora essere dato per sconfitto.
Perché Macron è importante per i centristi di tutto il mondo, secondo The Economist.